PROCESSO ai TIRANNI tribunali del bene da Norimberga all'Aja di Pierluigi Battista

PROCESSO ai TIRANNI tribunali del bene da Norimberga all'Aja CON IL RAISS Si RIPROPONE IL PROBLEMA DI NON TRASFORMARE i COLPEVOLI IN EROI O MARTIRI PROCESSO ai TIRANNI tribunali del bene da Norimberga all'Aja analisi Pierluigi Battista COME procedere per non fare di Saddam Hussein un martire? E il tribunale della storia che dovrà giudicarlo, ha bisogno davvero dr toghe e codici, cavilli e procedure, prove e controprove, per emettere un verdetto pohtico di condanna del grande massacratore messo finalmente in condizione di non nuocere? Ora che il tiranno è in catene, che lo choc della cattura e l'immagine di un uomo impaurito e rintanato nel sottosuolo della storia hanno infranto il mito del guerriero indomito, del combattente impavido, del ribelle baldanzoso e irriducibile che sfida il gigante tecnologico e impugna le armi per l'ultimo duello con il nemico, il dilemma successivo riguarda i vincitori. Come assicurare un giudizio non predeterminato, rispettoso delle regole, scrupoloso nell'osservanza dei diritti dell'imputato? E cosa hanno a che fare le regole dello Stato di diritto con la punizione di un tiranno? Perché allestire la rappresentazione di un processo per dare veste giuridica a una decisione che che di giuridico ha ben poco? Ed è davvero così necessario, e non sarà addirittura controproducente, inscenare la finzione dei vincitori che approntano il rito di umiliazione del vinto? Figho del processo di Norimberga, l'Occidente ha a lungo interiorizzato il paradigma della sentenza esemplare, del tribunale che si autoinveste della funzione salvifica, a nome dell'umanità, di purificare al mondo dai nemici del genere umano. I vincitori di Norimberga, come a sottolineare il valore dr radicale frattura simbolica, fabbricarono la nuova fattispecie giuridica, destinata, come ha argomentato Antonio Cassese^a costituire la cornice ideologica dèlia nuova carta dèi diritti dell'Onu: il crimine contro l'umanità. Per aver commesso quel crimine, undici nazisti, tra cui Rudolf Hess, Joachim von Ribbentrop e Hermann Goering e Martin Bormarm (contumace), vennero condannati alla forca. Goering, per evitare il disonore, si suicidò prima dell'esecuzione deUa sentenza. Ma il verdetto di Norimberga attizzò infinite polemiche, e proprio a causa della fragilità delle motivazioni giuridiche che ne determinarono l'esito, negh armi a venire non rappresentò affatto quel monito al «mai più» crimini di quella portata. Un film straordinario. Vincitori e vinti, raffigura uno Spencer Tracy che, nei panni di un giudice americano chiamato a pronunciarsi sui criminali nazisti alla sbarra, esprime con onestà e dolore l'indignazione di un democratico specchiato di fronte alle testimonianze dell'orrore dei campi di sterminio ma anche i dubbi di un uomo di diritto sulla liceità stessa di un tribunale composto dalle potenze vincitrici nella guerra. E si poteva accettare con disinvoltura l'introduzione del criterio della retroattività giudicano degh uomini per reati che non erano reati al momento in cui furono compiuti? E si poteva accettare che a giudicare del comportamento criminale dei nazisti fossero anche giudici sovietici, rappresentanti di un Paese che si era macchiato di crimini orrendi e che a Norimberga addirittura tentò di addossare sui nazisti la colpa dell'eccidio di Katyn, che invece, con la morte di migliaia e mighaia di ufficiah polacchi, era stato compiuto dai soldati dell'Armata Rossa? E non c'era qualcosa di atrocemente sarcastico e contraddittorio nel fatto che tra gh imputati ci fosse anche quel von Rihhentrop, co-firmatario del patto segreto tra nazisti e sovietici del 1939 e dunque accusato di aver commesso «crimini contro l'umanità» anche in quell'arco di tempo in cui la Germania nazista era alleata con uno dei Paesi rappresentati nella corte intemazionale chiamata a giudicare quei crimmi? Interrogativi colossali che^appunto. tolsero a Norimberga l'aura delia giustizia indiscutibile, la forma di un «giusto processo» in cui le prove vengono soppesate consentendo all'imputato, anche al più incallito criminale della storia, di difendersi con tutte le garanzie di uno Stato di diritto. Norimberga non impedì altri massacri, destinati stavolta a restare impuniti. Ma il suo mito ha creato la retorica di un tribunale intema- zionale del Bene, ì enfasi di una Giustizia Etica che si arroga il diritto, attraverso i suoi processi, di sradicare il Male individuando negh imputati la personificazione di ogni malvagità. E' quell'«utopia con la toga», definita così da un libro di Aido Di Lello, che si prefigge di incarnare lo spirito dell'Umanità contro i suoi nemici. Anche a rischio, come sta avvenendo presso il Tribunale dell'Aja, di fare di un dittatore come Slobodan Milosevic il martire di una giustizia prefabbricata, finta, rituale, tutt'aìtro che imparziale. E chi giudicherà Saddam Hussein dovrà pure far sua l'esperienza dell'Aja in cui Milosevic, con le sue cravatte che ostentano i colori della Jugoslavia ferita, la sua spavalderia, ma anche la sua difesa tecnica dalle fragili contestazioni dell'accusa, sta riconquistando a Belgrado consensi oramai perduti come difensore della sovranità di uno Stato dall'imperialismo etico di un informale superStato che appare come una potenza globale ma non democratica, umanitaria ma non rispettosa dei diritti dei singoh. Ubbie «garantiste»? Ma la tendenza alla «giuridicizzazione» del giudizio storico e pohtico ha sempre canalizzato l'inevitabile tensione tra il fine della sanzione morale di un comportamento sto- ricamente indifendibile e il mezzo, quello del diritto, che per sua natura esige la garanzia di un giusto processo per non sfociare nella solennità di un'inconfessabile finzione se non addirittura di ima farsa. «Processare il nemico», come ha scritto Alexander Demandt, ha sempre prestato il fianco ad abusi e ingiustizie patite nelle aule di tribunali destinati a formalizzare un verdetto preconfezionato. Demandt parte addirittura dai processi-farsa a Socrate e Gesù Cristo. Ma che la giustizia piegata a finalità etico-politiche estranee al meccanismo giudiziario normale costituisca un grumo di problemi irrisolvibili è cosa nota sin dal processo da cui scaturì la decapitazione di Carlo I in Inghilterra (ma che almeno, nella patria del garantismo, partorì il contravveleno dell'Hobeos Corpus, per arrivare al processo simbolico che i giustizieri della Francia rivoluzionaria vohero allestire per dare veste solenne alla condanna di Luigi XVI,in cui, come hanno osservato Frangois Furet e Mona Ozouf, l'imputato non era tanto il singolo Re quanto il principio di regalità in quanto tale, da colpire come ((traditrice» e «nemica» della nuova Nazione scaturita dalla rivoluzione. Inevitabile che quel processo culminasse nel patibolo attrezzato nella nuova Piazza della Rivoluzione (ora Concorde) in cui il popolo francese potè assistere all'umiliazione purificatrice del simbolo regale, quel Luigi XIV che si rivolse, impedito dal boia, con un accorato «Popolo, muoio innocente» e che Jules Michelet dipinse così nell'atto di assistere al processo in cui era imputato: «Un uomo come tanti altri, che sembrava un borghese, un rentier, un padre di famigha, dall'aria semplice, un po' miope, il viso già sbiancato dalla prigione e col sapore della morte». La mitologia della giustizia «rivoluzionaria» come sanzione di un trionfo storico e un rituale di degradazione dello sconfitto prenderà nel Novecento forme molteplici e contraddittorie. La forma della farsa crudele, come nella stagione dei processi staliniani (e poi maoisti e polpottiani) che oltre alla cancellazione del nemico, secondo le lugubri procedure im- mortalate in Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, ne esigevano la distruzione morale attraverso i riti di sottomissione nutriti di confessioni estorte. La forma del processo davanti alle telecamere in cui la sostanza di una condanna golpista viene risolta nelle formule hturgiche di un grottesco dibattimento, come è avvenuto con Ceausescu e la moglie Elena. In Israele, nei primi anni Sessanta la concitazione del processo Eichmann fece scontrare la rivendicazione dello Stato ebraico di portare alla sbarra il rappresentante dei criminali che vollero e attuarono lo sterminio con una prassi così disinvolta nell'uso del diritto e delle procedure da suscitare i resoconti scandalizzati di Hannah Arendt, protagonista in seguito di una violentissima e dolorosa polemica con i portavoce della comunità ebraica americana. E oggi, le iniziative del giudice Garzòn di sovrapporre alla giustizia degh Stati, una giustizia etica sovrannazionale hanno portato alle lacerazioni e alle divisioni sul caso del dittatore cileno Augusto Pinochet. La richiesta di una ((Norimberga rossa», del resto, è stata alla base del tentativo di incrimmazione dell'ultimo leader comunista della Germania Est Erich Honecker, frustrato dall'evidente impossibilità di portare in tribunale un uomo come responsabile di decenni di delitti compiuti in nome del comunismo. Oggi, l'ideologia del Tribunale internazionale, finora frenato dalle realistiche perplessità americane, rinverdisce le pretese dell'«utopia in toga». E come giudicare il vinto Saddam (e da chi) inaugura una nuova controversia in cui la storia si intreccia problematicamente con il diritto. Ultima e spettacolare reincarnazione del mito di Norimberga. Con i gerarchi del Terzo Reich si pose subito il dubbio se fosse legittimo anche di fronte all'orrore dei campi disterminio che a giudicare fossero i rappresentanti dei vincitori Dietro la retorica di una «utopia con la toga» capace di sradicare il male c'è la realtà delle udienze dove Milosevic sta diventando il difensore sfortunato della libertà serba Hannah Arendt denunciò con vigore il contrasto tra la rivendicazione dello Stato ebraico di portare alla sbarra Eichmann e il disinvolto uso delle procedure Un'udienza del tribunale di Norimberga che mise alla sbarra i gerarchi del Terzo Reich Slobodan Milosevic durante una fase del processo in corso all'Aja L'esecuzione di Luigi XVI di Francia condannato a morte dai rivoluzionari