Kl RWAN «Farò l'Italia ovale grande come gli Ali Blacks» di Stefano Semeraro

Kl RWAN «Farò l'Italia ovale grande come gli Ali Blacks» PARLA IL TECNICO DELLA NAZIONI ALE Di RUGBY CHE PREPARA IL «SEI NAZIONI» KlRWAN «Farò l'Italia ovale grande come gli All Blacks» ritratto Stefano Semeraro ANCHE nel sangue di John Kirwan ci sono globuli bianchi e rossi. Solo che i suoi sono ovali. Lo scrive Marco Pastonesi, nel suo splendido libro sulla squadra di rugby più famosa del pianeta (Ali Blacks, BaldiniS- Castoldi, 20 euro), e probabilmente è vero, anche se manca il referto di laboratorio. Rugbista, figlio e nipote di rugbisti, Kirwan è un deposito di gloria ovale. Da giocatore un tre quarti ala potente, agile, spietato, un metro e 93 per 92 chili di stazza - è stato campione del mondo nell'87, in dieci anni da titolare con i Tutti Neri neozelandesi ha disputato 63 test match, 96 partite, e segnato 34 mete. Una delle quali, messa giù contro l'Italia proprio durante la prima Coppa del Mondo, all'Eden Park di Auckland, la città dove è nato 39 anni fa, è materia d'insegnamento e incanto per chiunque consideri lo sport un'arte del movimento. Come uomo, «Gei Key», viso largo sotto un taglio di capelli da porcospino, è uno capace anche di scelte scomode, laceranti: a 23 anni fu uno dei due Ali Blacks a rifiutare la tournée nel Sud Africa dell'apartheid. In Italia l'Angelo Nero, come lo chiamavano, arrivò per far vincere anche Treviso, 45 mete in 60 partite, quattro anni in maglia Benetton e uno scudetto neir88-'89. Ci rimase per amore di Fiorella, poi diventata signora Kirwan, e oggi i suoi tre figli, Francesca, Niko e Luca, sono italiani. Passato allenatore emigrò in Giappone, poi tornò a casa per istruire i tre quarti degli Aukland Blues. Infine è ripiombato da noi: prima vice dell'altro Ali Black Brad Johnstone, poi commissario tecnico degli azzurri dal marzo 2002. E' lui la guida della nazionale che ha vinto per la prima volta due partite ai Mondiali, innescando un piccolo boom ovale anche in Italia. Se il rugby è una religione, gli Ali Blacks ne sono i guerrieri-stregoni, e Khwan un mistico pragmatico del gioco, un gladiatore dalla voce gentile. E da combattente puro, oggi, sogna un Colosseo per l'esordio dell'Italia nel prossimo Sei Nazioni contro i padroni del mondo inglesi: «Giocare all'Olimpico, invece che al Flaminio, servirebbe anche per onorare l'Inghilterra - spiega il coach az¬ zurro con vocali ammorbidite, slisciate dall'accento kiwi misto a quello veneto -. Non so se l'Italia si merita da sola un palcoscenico del genere, ma mi piacerebbe vedere 80 mila spettatori per una partita della nazionale. L'anno scorso passando vicino a quel bellissimo stadio mi sono detto: "Come sarebbe bello trasformarlo in una fortezza, in un luogo capace di turbare il sonno degli avversari che devono venirci ad affrontare"». «Perchè - continua - qnesta nazionale si abitui, così, a pensare in grande. Non sono d'accordo con chi sostiene che non arriveremo mai al livello dei migliori. Noi dobbiamo puntare a vincere il "Sei Nazioni", il nostro obiettivo deve essere quello. Anche la Francia, dopo essere entrata nel "Cinque Nazioni", impiegò anni prima di vincere il torneo. Ci serve solo tempo». Tempo ed entusiasmo: «E' importante che il livello del campionato cresca, soprattutto sul piano della tenuta mentale dei giocatori, come è importante che la nazionale continui a fare da traino. Oggi avremmo bisogno di un risultato grandioso, di una vittoria che infiammi l'ambiente. La nazionale che alleno è giovane, interessante, in continua evoluzione, non bisogna mai fermarsi». Kirwan viene da una schiera di eletti. Gli Ali Blacks in Nuova Zelanda sono una sorta di semidei, ma con un conto salato da pagare per tanti onori: perdere non è consentito. Il Tutto Nero vive nel terrore di non essere all'altezza del ruolo, veglia e dorme tenendo sotto il cuscino la paura del male assoluto: la sconfitta. L'haka, la danza di guerra maori che inaugura ogni battaglia degli Ali Blacks, ti spiega subito la posta il palio: «Ka mate! Ka mate! Ka ora! Ka ora». E' la morte, è la morte, è la vita, è la vita. «Se devo scegliere un giorno della mia carriera - dice Kirwan - prendo quello in cui ho indossato la maglia degli Ali Blacks per la prima volta, a 19 anni, contro la Francia. Mettere quella maglia significa vestirsi anche di tutte le storie, di tutte le vite dei compagni che ti hanno preceduto. Ma è stata una grande soddisfazione anche lo scudetto vinto a Treviso. In squadra c'erano due neozelandesi, io e Green. Ma eravamo un'ala e un centro: vuol dire che il lavoro duro lo hanno fatto gli italiani». Anche l'Italia del rugby deve trovare un proprio stile, un marchio di fabbrica che la identifichi: «Stiamo cercando lo spirito italiano. Ho detto una volta gli italiani che dovrebbero giocare a rugby come guidano - sorride Kirwan - con una struttura di base, certo, con organizzazione, ma anche con brio, con estro. Perchè l'italiano è così": rispetta le regole, ma ogni tanto gli piace anche trasgredirle». Agli italiani che hanno visto in tv i Mondiali di rugby sono rimaste negli occhi anche le lacrime versate con tenero pudore durante l'inno da omaccioni abituati a picchiare, spingere, contundere: «Cosa vuol dire essere un uomo? Se ti butti a placcare uno che ti arriva addosso come un treno, okay, quello è coraggio. Ma un uomo è fatto anche di emozioni. In campo, se sono tuo avversario, ti faccio di tutto, ti passo sopra. Ma finita la partita ti abbraccio e ti invito a bere una birra. Se ti trovi uno stadio con ottantamile persone che cantano e non ti commuovi, vuol dire che non sei normale». «Una volta - continua - mi hanno chiesto di cosa ha bisogno soprattutto un rugbista. Di amore, ho risposto, e mi hanno guardato tutti -ome un pazzo. Specie gli inglesi. Ma dico, vi ricordate della prima volta che vi siete innamorati? La bellezza, l'intensità, la tensione di quei momenti? Ecco, quello che proprio non è possibile per un rugbista è entrare in campo senza provare emozioni forti». Vallo a spiegare però alle mamme italiane, che dietro alle magliette stracciate e alle ginocchia sbucciate si nascon- de un rito d'amore e di iniziazione: «Ma dalle botte, da qualsiasi botta si guarisce. Un giovane maschio durante gli anni della crescita ha bisogno di sfogare, di incanalare la sua aggressività. E il rugby ti insegna a farlo con onestà e lealtà. Ti insegna ad essere uomo». La sua è una nazionale piena di destini incrociati: neozelandesi, argentini, sudafricani di nascita che giocano da «equiparati» accanto a veneti, toscani, siciliani: «Il rugby è così perchè la società è così. Oggi esci di strada e incontri africani, indiani, americani, neozelandesi come me. La gente deve capire che sono giocatori che hanno scelto l'Italia, che possono indossare la maglia azzurra dopo tre anni passati nel nostro campionato. E' una regola giusta, perchè in tre anni puoi imparare la lingua di un Paese, inserirti nella sua vita. E in nazionale nessuno parla inglese, la nostra lingua è solo l'italiano». La maglia nera un Ali Black non se la toglie mai dall'anima, ma Kirwan, dopo tanti anni passati in Italia, ha sentimenti sottilmente meticci: «All'Italia devo dire solo grazie. Sono nato in una zona non certo ricca della Nuova Zelanda, là facevo il macellaio. Ora vivo a Treviso, qui ho trovato mia moglie, i miei figli sono nati qui. Mi sento italiano in certe sfumature, in dettagli che è difficile descrivere. Sicuramente da voi ho imparato a mostrare di più ciò che provo, a non tenermi dentro le emozioni». Dicono che Kirwan sia duro con i suoi, che non ammetta sgarri alle regole. Per convincerlo a metterti in campo occorre essere in perfetta forma, arrivare in orario, non chiedere sconti. Perchè nel rugby, sostiene John il concreto, non esistono stelle. Eppure l'Inghilterra ha agguantato la sua prima Coppa del mondo grazie ai piedi fatati di Jonny Wilkinson, il Beckham del rugby, il divo schivo che si allena anche il giorno di Natale: «Ma se conosci Wilkinson - ribatte convinto Kirwan - sai che è lui il primo a dire che il merito è di tutti non solo suo. Senza una squadra che funziona, Wilkinson non serve». E proprio l'Inghilterra di Wilkinson Kirwan si ritroverà di fronte il 15 febbraio, per il suo secondo Sei Nazioni da cittì azzurro. Nel 2003 il bilancio fu di una vittoria, a Roma contro il Galles, e quattro sconfitte. E fra sei mesi, giusto alla conclusione del torneo, scade anche il contratto di Kirwan con la federazione: «L'anno prossimo dovremo giocare un grande torneo, ormai tutti se lo aspettano. Sto studiando come "movimentare" il nostro gioco, come migliorarlo negli "uno contro uno" sia in difesa sia in attacco». «In Australia - aggiunge abbiamo dimostrato che possiamo giocarcela alla pari con tutti, ma la sconfitta con il Galles ancora non mi va giù. Se avessimo superato il turno, contro l'Inghilterra saremmo scesi in campo senza pressione, e avremmo giocato un partitone, ne sono sicuro. Ma nonostante quella sconfitta difficile da digerire, quella dei Mondiali è stata un'eperienza molto positiva. Ho voglia di ripeterla, di migliorarla come allenatore dell'Italia». Un cammino che potrebbe partire proprio da febbraio: «Lì dovremo tirare fuori grandi emozioni. A noi spatta giocare, ma se giocheremo davvero all'Olimpico sarà anche un'occasione per avvicinare nuove persone al rugby, per vedere insieme italiani e inglesi. Nel nostro sport si sta vicini anche se si tifa per squadre diverse. Andare allo stadio, nel rugby, è anche un modo per trovare nuovi amici». «Per l'esordio vorrei un super palcoscenico come l'Olimpico capace di togliere il sonno ai nostri avversari inglesi» Un rimpianto: «La sconfitta con il Galles ai Mondiali. Ora sto studiando come "movimentare" il nostro gioco» L'ex Angelo Nero è certo «1 rugbisti italiani devono cercare il loro spirito, lo penso che farebbero bene a giocare come guidano l'auto: aggiungendo alle regole un tocco di brio e di estro» Sei Nazioni di quest'anno: l'azzurro Dennis Dallan in azione durante la gara fra Italia e Irlanda vinta dagli ospiti 37 a 13 John Kirwan: «Sono nato in Nuova Zelanda, ma oggi mi sento italiano»