Cori, prodigi, emozioni: c'è Muti con Rossini
Cori, prodigi, emozioni: c'è Muti con Rossini Cori, prodigi, emozioni: c'è Muti con Rossini L'orchestra sa essere leggera e tenebrosa, alla fine applausi trionfali Paolo Gallarati MILANO IL «Mosè» di Rossini neUa versione francese del 1827 è la classica opera da inaugurazione: quattro ore e mezza di durata, grande apparato di cori e baUetti, situazioni mirabolanti con prodigi a vista come fulmini, fiamme, oscurità diffusa, e U mare che si apre per far sì che U popolo Ebraico, guidato da Mosè, possa sfuggire aU'inseguimento degli Egiziani. Anche se U lieto fine sfuma in un soffuso «pianissimo», resta dentro di noi l'immagine di una grande festa che richiede un'esecuzione in pompa magna come queUa approntata ieri sera daUa Scala: difficUe, sotto il profilo musicale, immaginare di meglio. Prima di tutto va citato U coro. Istruito da Bruno Casoni, e quasi sempre in scena, raggiunge la perfezione in queUo stUe operistico itahano che vuole potenza di volume unita a una costante pienezza di suono, flessibilità e calore. Se poi a dirigerlo è Riccardo Muti, le pagine coraU, che si susseguono a getto continuo, finiscono per grondare una crescente commozione, sino aUa celebre preghiera del quarto atto, che sembra davvero toccare U cielo steUato cui si rivolge. Rifacendo per le scene parigine U «Mosé in Egitto», presentato a Napoli nel 1818, Rossini accostò con la massima disinvoltura pagine belcantistiche deUa più pura tradizione itahana e potenti cori aUa francese, accostò la tenerezza, tipicamente napoletana, neUa rappresentazione degh affetti con la malizia, quasi sfacciata, di danze briUantissime, di netta impronta parigina. Mondanità e religione, fasto e spoliazione, ironia e severità oracolare si intrecciano così in una partitura composita, in cui l'unità stilistica e drammatica è l'ultima deUe preoccupazioni. Verdi, che metteva tutto al servizio del dramma, ne sarebbe inorridito ma Rossini, anche neUa più seria deUe sue partiture, vuol ricordarci che l'opera è essenzialmente un gioco, e che proprio in questo sta la sua beUezza: rappresentare la verità ma, neUo stesso tempo metterla in cornice, e perfino scherzarci su, in un continuo ribaltamento di prospettive che agh spettatori d'oggi sbmbra anticipare lo straniamento del teatro novecentesco. Dunque la partitura del «Moise et Pharaon» è un arcobaleno di colori: proprio queUo che ieri sera si è sprigionato daU'Orchestra deUa Scala, leggera come un pizzo quando si tratta di ricamare, compatta e brunita quando, dai passi pittoreschi e festosi, come le danze, si passa improvvisamente aUe scene tragiche: somma, su tutte, queUa deUe tenebre che avvolgono l'Egitto per punizione divina, con queUa musica fatale che raggiunge in questa esecuzione un'intensità beethoveniana. E poi Muti ci fa sentire anche Schubert, che da Rossini prese non poco: i passi di stupore, come U fluttuar d'arpe nel canto di ringraziamento dopo U ritomo deUa luce suU'Egitto, o l'apparire improvviso di melodie nude e struggenti, additavano aU'Ottocento altre vie, che non sono né francesi, né itahane. Rossini, insomma, come musicista europeo: questa la cifra caratterizzante deU'esecuzione di ieri sera che gode di una grande compagnia di canto. Ildar Abdrazakov è un Mosè possente e severo, Erwin Schrott un Pharaon degno di competere con l'impegnativo antagonista, Giuseppe Filianoti un tenore di grazia e di forza che gorgheggia senza smaghature, con uno slancio salutare ed energico neUa parte di Amenophis. Le due donne sono entrambe da elogiare, tanto dolce e insieme spavaldo è U loro modo di cantare con tecnica ferrata ma sempre attentissima aU'espressione: U soprano Barbara Frittoh è la giovane Anai, ebrea, innamorata del principe Egiziano ed eroica nel rinunciarvi per fedeltà al suo Dio; U contralto Sonia Ganassi è Sinaìde, moglie del Faraone, piena di affetto e di tenerezza austera. Questo gruppo di cantanti, adeguatamente rinforzato daUe parti minori, garantisce la piena realizzazione di quel «beUo ideale» che costituiva la steUa polare nel sistema estetico di Rossini: la riuscita, quindi, si può e1 Je completa. DaUa regia di Luca Ronconi ci si aspettava più vivacità: è molto statica e rigida. D'accordo che nel «Mosè», in cui si susseguono ben undici preghiere, non c'è molto da muovere ma, dopo tutto, quel?e masse corali sono un popolo che soffre, spera, ama, inonidisce, si dispera, e vive s"Ua propria peUe un'esperienza di enorme portata, storica, mistica e cosmica: tenerle sempre ferme, come in un oratorio, non aUeggerisce U peso del lungo spettacolo. Le scene di Gianni Quaranta migliorano dal primo aU'ultimo atto e, dopo la prima, davvero bruttina, con queU'organo di legno che chiude U palco, e le architetture grige che imprigionano U deserto egiziano in una sorta di tempio, riservano alcune sorprese: U fuoco tra le canne d'organo; l'organo che si spacca in due e suggerisce i troni del Faraone; U mare solido, molto scuro, quasi nero, che si divide e sale su, ai due lati del palco; la contaminazione tra cattolicesimo barocco (le due logge laterali da cui spuntano vescovi in mitria e pastorale) e l'Egitto antico con sfingi e idoh. Ronconi non è caduto neUa banabtà di modernizzare U conflitto tra ebrei ed egiziani in queUo tra arabi e israeliani: ha identificato, invece, U regno del Faraone con il fasto deUa controriforma. Serpeggia, inoltre, in questo spettaccolo, un filo ironico, seppur meno visibUe che in altri lavori del geniale regista: i violinisti aUa ChagaU che accompagnano le masse ebraiche nerovestite sono, ad esempio, un particolare affettuoso e spiritosamente aUusivo. AUa fine grandi applausi per tutti.
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