D'Antona, la Cassazione «scagiona» la Lioce di Vincenzo Tessandori

D'Antona, la Cassazione «scagiona» la Lioce LE INDAGINI SULLA MORTE DEL CONSULENTE DEL LAVORO UCCISO NEL MAGGIO '99 D'Antona, la Cassazione «scagiona» la Lioce Respinto il ricorso dell'accusa: solo sospetti sulla brigatista Vincenzo Tessandori ROMA Insomma, chi tese l'agguato mortale al professor Massimo D'Antona la mattina di giovedì 20 maggio 1999 in via Salaria? Le Brigate rosse-Pcc, d'accordo. Ma quali sono i nomi degli assassini? Un gruppo di almeno 7-8 persone, hanno detto gli inquirenti, e fra loro Nadia Desdemona Lioce e Roberto Morandi. Eppoi Marco Mezzasalma. Laura Proietti e Cinzia Banelli. Il ragionamento alla base dei sospetti sembrava avere una sua logica e eoa quei dubbi sono diventati accuse fonnali. Il fatto è che, nel caso di Lioce, quelle accuse non hanno convinto prima il tribunale del riesame, che aveva cancellato l'arresto, poi i giudici della prima sezione penale della Cassazione, che ieri hanno respinto il ricorso firmato dai pubbhci ministeri Franco lenta e Pietro Saviotti. La qual cosa non significa la conclusione di una più o meno stimolante schermaglia fra accusa e difesa, ma rimette in discussione gran parte del lavoro d'intelligence e, dunque, l'inchiesta sull'uccisione del professore. Un'inchiesta che sembrava aver tratto vigore da un fatto tanto tragico quanto casuale: la sparatoria del 2 marzo scorso sul treno Roma-Firen¬ ze, nella quale persero la vita il sovrin tendente di polizia Emanuele Petri e il brigatista Mario Galesi, e che consentì la cattura di Lioce. Ora, con una punta di soddisfazione professionale, Attilio Baccioli, difensore della brigatista Duemila, commenta che «tutto l'affare D'Antona gira attorno a lioce e Morandi: gli altri, se ci sono, sono considerati i soldatini. E se escono quei due, tutta l'impalcatura crolla)). E oggi tocca a Morandi, che attraverso il legale ha presentato ricorso: in altre parole, una cosa è dichiararsi militante brigatista, un'altra accettare passivamente la responsabilità di un omicidio. Eppure, la procura generale aveva chiesto di accoghere il ricorso dell'accusa, il che poteva significare che ci fossero pochi dubbi. Ma gli aigomenti messi sul tavolo, evidentemente non avevano un aspetto così inossidabile e poche ore prima della sentenza Baccioli aveva mostrato un certo ottimismo. «L'accusa si regge su due elementi: primo, il documento di appartenenza alle Brigate Rosse consegnato dalla lioce ai magistrati dopo l'arresto; secondo, la questione dei due motorini, gestiti dalla lioce». Tutto questo gli pareva insufficiente per affermare che nel gruppo che ammazzò D'Antona c'era anche la sua assistita, (dioce ha rivendicato l'appartenenza alle Brigate Rosse, non l'omicidio D'Antona in sé: tra l'altro non si può nemmeno affermare che in quell'anno lei militasse nelle Brigate Rosse. Eppoi, l'accusa non sa di preciso quale motorino sia stato usato dai killer di D'Antona. Tanto meno può risalire alla tesi secondo cui uno dei due motorini gestiti da Lioce sia stato usato nell'omi¬ cidio. Lei i motorini li ha presi e dati alle Br: da questo dato non si può affermare che lei li abbia dati per l'omicidio D'Antona)). In altre parole, si tratterebbe di un ((impianto accusatorio gracile, questo, che è il nodo dell'inchiesta sulle Br e che, secondo l'accusa, individuerebbe in lei il capo». Prove, non sospetti, sembra dire la Cassazione. E non ci sarebbero prove che Nadia Lioce possedesse una rivoltella e avesse partecipato al furto dei fuigoni usati per l'agguato. Al contrario, fin troppo chiare, agli occhi dei giudici della Cassazione, le prove sull'appartenenza alle Brigate rosse Duemila. In questo senso la prima corte, presieduta da Gianvittore Fabbri, non ha dubbi. E dunque ha confermato le accuse di far parte di un'associazione sovversiva costituita in banda armata e di ricettazione di moduli usati per contraffare il documento di identità die aveva al momento dell'arresto sul treno. Anche Galesi aveva un documento simile: entrambi provenienti da un furto nel comune di Casape avvenuto il 10 marzo 1999 e contraffatti con le date del 9 e 29 aprile '99: perlagiustizianonsignificanulla, che meno di un mese dopo D'Antona venisse ucciso. La prima sezione si è anche occupata del ricorso alla condanna di un anno, in appello, per gli irriducibili brigatisti Stefano Minguzzi, Ario PizzareUi, Francesco Aiosa e Cesare di Lenardo, che dal carcere di Biella avevano diffuso un documento di rivendicazione del delitto D'Antona. Ricorso respinto. Rimane, in ogni modo, quella domanda: «Chi tese 1 agguato mortale al professor Massimo D'Antona?». Oggi sarà esaminata la posizione di Morandi l'altro brigatista L'avvocato difensore: «Se anche per lui il verdetto sarà uguale, l'impalcatura dei pm crolla» Il luogo dell'omicidio di Massimo D'Antona, ucciso la mattina di giovedì 20 maggio 1999 in via Salaria Nadia Desdemona Lioce

Luoghi citati: Biella, Casape, Roma