Calunnie etniche nella lingua che parliamo

Calunnie etniche nella lingua che parliamo L'INTOLLERANZA NASCOSTA NEI MODI DI DIRE RIVELA OSTILITÀ CALATE NEL FONDO DELLA COSCIENZA POPOLARE Calunnie etniche nella lingua che parliamo Gian luigi Beccaria LA lingua che parhamo è colma di calunnie etniche. Diciamo «errore marchiano», senza pensare che si tratta di un «errore marchigiano» (lat. medievale marchianus, della marca di Ancona). Gli «altri», i «vicini», i «diversi» sono sempre peggiori di noi. Anche il proprio dialetto è parso mighore di quello dei vicini, la propria lingua superiore per capacità espressive alle altre. Il nemico è il forestiero, chi viene da fuori. E deve avere assolutamente dei difetti. In friulano toscidn, toscano, è l'avido di guadagno, lo spagnolo e portoghese fosco e il catalano tosa hanno preso il significato di rozzo, in siciliano greca è lo sleale, l'astuto. In romanesco lombardo significava ladro, lumbardà rubare. Una storia infinita. Il Nord ha chiamato «terroni» quelli del Sud, che hanno ricambiato con «polentoni». Il cittadino ha appioppato a chi viene dalla campagna gli appellativi «cafone», «buzzurro», «burino», che in origine significavano sempheemente contadino. Anche/urZdn, alla lettera «friulano», a Grado e in parte anche a Venezia, vuol dire contadino. Noi europei non siamo stati teneri con gli extracomunitari: penso ad «arabo» e tutta la nutrita serie di significati negativi, così come «turco» o «marocchino». «Beduino», l'arabo nomade, ha assunto il significato spregiativo di uno che veste in maniera strana e malamente (come «zingaro»), in italiano «zulù» significa rozzo, ignorante, nel gergo studentesco milanese di qualche decennio fa «negro», «bonzo», «badula» erano riferiti al compagno dalla carnagione scura. L'intoUeranza più accentuata si manifesta nel designare la diversità religiosa. Tutta la terminologia che le grava intomo si veste di Janni spregevoli. Ramadan, diventato nei diaetti del nord-Italia ràbadan, ha preso il senso di baccano o di cianfrusaglia, una cosa da buttare. «Bailamme» è una parola turca, da bayram, che in realtà indica sempheemente una festa religiosa. Pescando dal suo sterminato archivio sulle parlate biellesi, ricordo che un giorno il compianto Alfonso Sella mi tirò fuori una scheda che registrava una locuzione curiosa, un guizzo di inventiva popolaresca, compendiata nel detto ciamé la curunna aj ebrei, chiedere agli ebrei la corona del rosario, nel senso di chiedere a qualcuno cose impossibili. Per stare in tema, possiamo aggiungervi il sic. u turcu a priérica, un turco alla predica, per indicare la persona assolutamente fuori posto e incapace di capire: chi finge di non capire fa u turco apriérica. Modi «innocenti», sembrano, ma a pensarci bene non si tratta di espressioni neutre e spiritose soltanto, perché riprendono e ritesso¬ no un convincimento collettivo, una ostilità calata nel profondo della coscienza popolare, cioè ebreoAurco, ecc. = miscredente. U vecchio antisemitismo aveva diffuso moltissimi stereotipi popolari nelle lingue e nei dialetti d Europa, dove U significato di «giudeo» e di «ebreo» svariava, a seconda dei tempi e dei luoghi, da «truffatore in affari» ad «avaro, usuraio», da «furbo» a «persona che non va in chiesa», e anche «scortese», «cattivo», addirittura «balbuziente» (penso al calabrese bràicu, e braichìari, tartaghare). In qualche dialetto d'Itaha ebreo significa «testardo», con riferimento alla osservanza «ostinata», il rigoroso rispetto delle Scritture. Anche la pareli «rabbino» ha preso tanti significati negativi e la vicinanza fonetica con la parola «rabbia» ha rincarato la dose. L'idea poi del disordinato, e il baccano, la confusione, è stata poi applicata alla parola «ghetto» (ven. far gheto, vociare), a «sinedrio», a «sinagoga». Se sfogli il vocabolario piemontese del Sant'Albi no trovi che fé 'n ghet d la malura equivale afe 'na sinagoga ch'afinisspì. Forse anche «baraon¬ da» potrebbe avere un'origine ebraica. In un mio libro dedicato alla terminologia popolare relativa a nomi di piante e animali nell'Europa cristiana ho registrato innumerevoli esempi di individui spinosi, o non commestibili, nocivi, velenosi che hanno i egolarmente come determinante negativo la parola «ebreo», «giudeo» (l'erba degli ebrei, la mela dei giudei, ecc.). Ma ora, dopo la tragedia dell'Olocausto non ci si aspettava che dei giovani studenti francesi potessero assumere nel loro gergo parole come «ebreo», «giudeo» nel senso negativo di cui ci parla Cesare Martinetti nella sua allarmata corrispondenza da Parigi. Un'espressione del tipo «la mia penna è ebrea» per dire che è scarica non è affatto innocente, è inquietante. Abbiamo appena chiuso un secolo violento, il Novecento, segnato da due parole, razzismo al principio, pulizia etnica alla fine! La storia è davvero maestra di nulla. Il conflitto mondo Occidentale-mondo arabo che insanguina il mondo si va già radicando nel linguaggio delle nuove generazioni? Stento davvero a crederlo. In romanesco lombardo è ladro e «lumbardà» sta per rubare I siciliani chiamano una persona fuori posto «u turcu a priérica» un turco alla predica

Persone citate: Alfonso Sella, Beccaria, Cesare Martinetti, Janni

Luoghi citati: Ancona, Europa, Grado, Parigi, Venezia