Ma il mito cominciò il giorno dopo di Paolo Mastrolilli

Ma il mito cominciò il giorno dopo Ma il mito cominciò il giorno dopo Celati al pubblico problemi di salute e avventure sentimentali Paolo Mastrolilli NEW YORK TUTTO finì nel freddo, scrisse Arthur Schlesinger nei Mille giorni di John Kennedy, così come tutto era cominciato. Neve a Washington il 20 gennaio del 1961, quando il presidente più giovane nella storia degli Stati Uniti posò la mano sulla Bibbia per giurare, e gelo nella Sala est della Casa Bianca il 24 novembre del 1963, dove la sua salma venne ricomposta per l'ultimo saluto. Eppure durante quei mille giorni, spezzati il 22 novembre dai proiettili di Lee Harvey Oswald, l'America aveva vissuto un sogno che l'omicidio di Dallas avrebbe trasformato in leggenda. Un «vita incompiuta», come l'ha definita lo storico Robert Dallek, che proprio perciò ha lasciato in bocca il sapore amaro delle possibilità non realizzate, e la nostalgia di cose mai accadute. E pensare che l'epopea di Camelot aveva corso il rischio di non cominciare neppure, a giudicare proprio dai documenti serti di famiglia su cui ha messo mani Dallek. Per esempio questa lettera, che il giovane John scrisse nel giugno del 1934 all'amico Lem Billings: «Merda!! Ho qualcosa che non funziona nell'intestino. In altre parole, caco sangue». Il linguaggio non è ancora quello del capo della Casa Bianca, ma di un ragazzino diciassettenne finito in ospedale per «coliti spastiche». Eppure rivela uno dei segreti più protetti nella vita di Kennedy, insieme alle avventure sentimentali: i suoi problemi di salute. Lem diceva che se avesse mai scritto la biografia del suo amico Jack, l'avrebbe intitolata così: «John F. Kennedy, una storia medica». Soffriva di colite, morbo di Addison, forse morbo di Chron, problemi alla prostata, e dolori alla schiena per via di una vertebra schiacciata. E tutto questo fu nascosto al paese, negando e poi bruciando i referti dei dottori. Oggi, con lo scrutinio capillare a cui i media sottopongono i candidati presidenziali, una persona così non potrebbe ambire alla Casa Bianca. Ma anche questa fu la peculiarità di Kennedy: il presidente più giovane nella storia del paese era forse anche il più malato, quando cominciò la sua corsa. Eppure chiese fiducia e l'ottenne, sulla salute come sul pregiudizio religioso, diventando il primo e finora unico presidente cattolico. I critici adesso dicono che fu un trionfo d'immagine più che di sostanza, perché Jack non riuscì a realizzare granché del suo programma. I tagli alle tas¬ se si scontrarono con le resistènze del Congresso, le riforme sociali le fece poi Johnson con la Great Society, e sui diritti civili Kennedy non era convinto di poter ottenere una legge complessiva che cambiasse la faccia al paese, perciò si era accontentato di cercare un compromesso secondo l'arte del possibile. Anche in politica estera, in fondo, dopo la Baia dei Porci e la crisi dei missili non aveva sbloccato le relazioni con Cuba, e in Vietnam aveva aumentato i consiglieri militari da poche centinaia a 16.000. Qui, però, si innestano gli studi più recenti sugli ultimi mesi della sua presidenza, che cercano nelle carte e nelle parole il disegno di come sarebbe potuta cambiare l'America nel secondo mandato. Sui diritti civili, Kennedy aveva cercato di bloccare la marcia del 28 agosto 1963, quella in cui Martin Luther King pronunciò il discorso «1 bave a dream», perché non pensava che la piazza potesse spingere il Congresso a scavalcare le resistenze del sud. Ma secondo Schlesinger «alla fine si era convinto della necessità di uno scatto morale», soprattutto dopo l'esplosione della bomba nella chiesa di Birmingham che il 15 settembre uccise quattro bambine nere. La sua legge era ancora un compromesso, ma comunque il 20 novembre era stata approvata dalla Commissione giustizia della Camera. Su Cuba, Dallek ha confermato che l'ex direttore di Look William Attwood, nominato consigliere di Stevenson all'Orni, aveva ricevuto l'incarico segreto di provare a riaprire il dialogo. Ne parlò con Carlos Lechuga, inviato di Castro al Palazzo di Vetro, e tanto Fidel, quanto Jack, avevano espresso l'interesse a ridiscutere le relazioni. Sul Vietnam, il consigliere Kenneth O'Donnell ricorda che dopo un incontro col senatore Mike Mansfield, Kennedy gli disse: «Sono d'accordo con lui sulla necessità di un ritiro completo. Ma non posso farlo fino al 1965, quando sarò rieletto». Il presidente temeva un contraccolpo capace di provocare una nuova ondata di maccartismo. Però l'uccisione di Diem lo aveva colpito e il 21 novembre, prima di andare a Dallas, disse a Mike Forrestal che pei l'inizio del 1964 voleva «una revisione a fondo di ogni possibile opzione in Vietnam, incluso come uscirne». Poche ore dopo partì per il Texas, e cercò di calmare così la moglie: «Oggi andiamo nel paese dei pazzi. Ma, Jackie, se qualcuno mi vuole sparare con un fucile da una finestra, nessuno può fermarlo. Perciò perché preoccuparsi?». Ouel qualcuno si chiamava Lee Harvey Oswald, ed era già appostato nel Texas School Book Dépository di Dallas. Il giorno dopo la vita incompiuta di Kennedy finiva, e cominciava il suo mito. «Innumerevoli persone - disse poi il consigliere Ted Sorensen - hanno notato che la sua morte li ha colpiti anche più profondamente di quella dei propri genitori. La ragione, io credo, è che la seconda situazione rappresenta ima perdita del passato, mentre l'omicidio di Kennedy fu un'incalcolabile perdita del futuro». John e Jackie con la figlia Carolina in un momento di serenità alla Casa Bianca