I sogni muoiono a DALLAS

I sogni muoiono a DALLAS 22 NOVEMBRE 1963: CON L'ASSASSINIO DI JOHN KENNEDY L'AMERICA PERDEVA LA GRANDE UTOPIA DELLA «NUOVA FRONTIERA» I sogni muoiono a DALLAS Igor Man I grandi della Storia vengono raccontati e giudicati - e dunque ricordati - per la loro vita, per quel che han fatto da vivi. JFK, John Fitzgerald Kennedy, viene ricordato per la sua morte. Eravamo a ridosso del Natale del 1959 quando Nanni Fontana, il mai dimenticato corrispondente del Giornale d'Italia da New York, mi disse che proprio nel mio albergo l'Aigonquin, ci sarebbe stato un party da non perdere. «Ci sarà il Gotha dell'intelligenza politica, conoscerai il senatore Kennedy», disse. JFK se ne stava in piedi, appoggiato a una colonna di cartongesso, un bicchierone di cocacola in mano. Mi colpirono il panciotto fuori moda del suo impeccabile tuxedo, lo sguardo: lento, attento ma remotamente triste. Rimase in piedi tutta la sera (per via dell'eterno dolore alla schiena) aderendo col dorso in pressione alla colonna di cartongesso. «Stai stringendo la mano al futuro presidente degli Stati Uniti», mi disse Nanni Fontana presentandomi a JFK e questi ebbe una smorfia scaramantica: «Non è ovviamente facile diventare Presidente, diventa tremendamente difficile quando si è cattolici, come il sottoscritto», disse. Futuri cortigiani e sinceri ammiratori premevano da ogni parte, sicché ogni mia speranza di «intervista rubata» svanì. Lo elessero Presidente nonostante fosse cattohco e per di più praticante. Vinse con una maggioranza popolare di centomila voti, in un'America che voleva scrollarsi di dosso il reducismo di Eisenhower e la scabbia del maccartismo. Rifacendosi a un affettuoso ricordo di Wilfrid Sheed, Gianfranco Corsini ha scritto che l'America dei Sessanta, ancorché conservatrice nel suo intimo, aspirava al cambiamento. Kennedy seppe convincere la nazione americana d'esser l'unico uomo politico capace di «conservare il meglio per innovare». Paradossalmente, proprio «al momento della sua morte sembrava che il miracolo stesse per compiersi. C'erano Krusciov e Papa Giovanni, la Baja dei Porci era stata dimenticata, Martin Luther King aveva pronunciato il discorso del "sogno" [...] o nasceva la Nuova Sinistra con un gesto di critica costruttiva nei confronti del nuovo Presidente». Su codesta Nuova Sinistra (yankee) molto s'è scritto, forse troppo. Ci han spiegato ch'era «l'autorimessa dell'Utopia», l'han definita «un club di intellettuali bianchi fuori, rossi dentro», ma un po' tutti, critici e no, nemici e amici, han concluso concordi che la Nuova Sinistra era semphcemente l'ultimo arrivato degli ismi dei Sessanta: il Kennedysmo, cioè. Ma nessuno, temo, ci ha esattamente detto cosa mai fosse 'sto Kennedysmo. Forse l'America di Frank Capra, non più casalinga bensì in marcia verso la Nuova Frontiera. Con il Giovine Holden al posto di James Stewart. In verità c'era in quel tempo non poca confusione, fra Marcuse che anticipava su Dissent il suo (noioso) uomo a una dimensione e la filosofia di Galbraith. JFK, sempre per citare Sheed, «aveva promesso una Nuova Frontiera ma questa avrebbe potuto essere qualsiasi cosa», perché il credo pohtico di JFK era un fantastico, rivoluzionario work in progress, era l'America di Frank Capra che aveva preso coraggio. Nel 1954, costretto all'immobilità in un letto d'ospedale per un rincrudirsi della ferita alla schiena, JFK, già senatore, dettò la sua professione di fede: iZ coraggio inpolitica, un saggio che gli valse il Pulitzer del 1957. «"L'eleganza nella disgrazia", è così che Hemingway ha definito il coraggio, la più preclara delle virtù umane»: con queste parole s'apre II coraggio in politica, il saggio di JFK che, rielaborato, diverrà il corpus del suo «messaggio alla Nazione sulla strategia della Pace». «Che noi lo si voglia o no - afferma il messaggio kennedyano -, il mondo cambia. E per un popolo che s'è prefisso l'obiettivo di cambiare il mondo, ciò va bene a dispetto d'ogni fatale difficoltà. L'importante è di sapere se saremo capaci di cambiare il mondo. Il nostro compito-dovere consisterà nel fare in modo che tutti i cambiamenti che si verificheranno a noi d'intorno, nelle nostre città, nelle nostre campagne, nella nostra economia, nel mondo occidentale, nel Terzo Mondo, nell'impero sovietico, in tutti i Continenti, il nostro compito sarà quello di fare in modo che tali cambiamenti contribuiscano ad affermare la libertà dell'uomo e la pace nel mondo». Ecco, rileggendo-riscrivendo codeste parole capisco perché, allora, nel 1963, quarant'anni fa, molti, forse tantissimi, giovani usciti dalla Resistenza affamati di libertà, ostinatamente decisi a lavorare a spez- zaschiena per quella «alleanza per il progresso» vaticinata da JFK, fossero kennedyani. Certo anche quell'America era irta di contraddizioni ma quel paese-continente dava l'impressione di poter uscire dal tunnel della confusione. Fors'anche annaspando, perché no, visto che la democrazia è dibattito continuo, è quel ((plebiscito permanente» illu¬ strato da Renan; è dubbio, prudenza ma soprattutto coraggio. Condito di common seme: quel buon senso di cui scrisse Thomas Payne nel 700. Quel 22 di novembre del 1963 a Dallas era «una grande giornata». L'ultima estate indiana regalava azzurro e sole. «Era una gran giornata», come dirà a noi giornalisti, quattro giorni dopo l'assassinio di JFK, il governatore Connally. «Fummo travolti dall'entusiasmo popolare. Mia moglie in Elm St. si volse verso Kennedy e gli disse; "Mister President, non potrà dire che Dallas non le voglia bene". "Certo che no, signora Connally"». Tre secondi e schioccò il primo sparo. JFK si abbatté in avanti, silenziosamente. Mentre Connally volgeva il capo a sinistra venne colpito anche lui: «Dio mio - gridò -, qui ci ammazzano tutti». Un terzo sparo e JFK si arrovesciò all'indietro, di nuovo colpito. «Oh my God, me l'hanno ammazzato», urlò Jacqueline Kennedy istintivamente gettandosi sul cofano della Lincoln convertibile, sei posti, azzurrina, quasi volesse raccogliere la calotta cranica del marito. «Jack, Jack», gemeva Jacqueline. Nel volger di pochi secondi la grande gioia s'era mutata in tragedia. Al Parkland Hospital l'arrivo della limousine presidenziale scatenò il caos. JFK respira. A fatica, però respira, ma la squadra medica diretta dal dr. Malcolm Perry pasticcia con trasfusioni, tracheotomia, massaggio cardiaco. Un'infermiera isterica sbarra il passo a JacqueMne. «Sono la moghe del Presidente, debbo entrare», gridò quella. «Qui non entra nessuno, è il regolamento», gridò a sua volta l'infermiera e, poiché Jacqueline tentava di spostarla, le piazzò due cazzotti nel ventre. Il tailleur rosa di Jacqueline era lordo del sangue di suo marito. Il rimmel sciolto dalle lacrime le rigava il viso così come in Sudan le donne colpite da subitaneo lutto fanno con un pezzo di sughero affumicato. Ad ore 13 (locali) del 22 novembre dell'anno di grazia 1963, il dr. Perry comunica a Jacqueline che suo marito, il Presidente della Nuova Frontiera, è morto. Non passa nemmeno un'ora e arrestano Lee Harvey Oswald, un ex marine ((patito dell'Urss, verosimilmente comunista». Oswald si protesta innocente e non sapremo mai la verità perché Ruby, il gestore del Carousel, gli sparerà in pancia, nella sede deUa polizia, proprio mentre stanno per portarlo in prigione. (Il personaggio Oswald rimane tuttora un mistero. Potrebbe aver sparato lui ma continuo a pensare che non fosse solo quel maledetto venerdì.) Alle 4 del mattino del 23 di novembre, Robert F. Kennedy (Bob) rese l'ultimo saluto a suo fratello. Quelli della ./unerai home avevano fatto un buon lavoro ma JFK «sembrava un pupazzo di plastica», sicché Bob ordinò che la bara venisse esposta chiusa. Bob e lo stesso JFK temevano la trasferta a Dallas. Il mafJre àpenser di Dallas, mi avrebbe poi detto Misha Stille, fu sempre John Wayne. Nella «Big D» prosperava la «John Birch Society» dichiaratamente nazifascista. Il capo della mafia dei trasporti intrallazzava con Ruby, colui che, indisturbato, ucciderà Oswald. Vidi, in quei giorni, a Dallas, gente piangere e deporre fiori sul luogo del delitto ma i più gioivano, apertamente. Il reverendo metodista William A. Holmes mi disse di aver assistito, sgomento, alla scena di gio vinciti e ragazzi che gridavano «evviva» apprendendo della morte di JFK. Sono passati quarant'anni e i giornali scrivono che l'America ancora non sa chi in verità uccise il Presidente della Nuova Frontiera. D'altra parte, lo stesso Bob Kennedy spense a uno a uno i mille interrogativi sull'assassinio; «Tanto, sia come sia. Jack non tornerà più». elettorale UN LIBRO, UNA STORIA E' appena uscito negli Stati Uniti, pubblicato dalla Bulfinch Press, l'album fotografico Wememfaer/ngJacfc di Jacques Lowe (fotografo personale di JFK) con la prefazione di Robert F. Kennedy Jr., le didascalie di Hugh Sidey e la postfazione di Tom Wolfe. E' una raccolta di 600 fotografie, la metà delle quali inedite, che ritraggono i Kennedy nella vita domestica e in quella John e Jackie a Pendleton in Oregon, durante la campagna elettorale John Fitzgerald Kennedy fotografato da Jacques Lowe