The NewYork Review of Books: Kerouac? Mai qui

The NewYork Review of Books: Kerouac? Mai qui QUARANTANNI FA, NEL SALOTTO DI ELIZABETH HARDWICK, NASCEVA LA PIÙ AUTOREVOLE RIVISTA D'AMERICA The NewYork Review of Books: Kerouac? Mai qui Claudio Gorlier HO assistito alla nascita della JVew York Review ofBooks, quarant'anni fa. E' accaduto nell'elegante salotto di Elizabeth Hardwick, nel suo appartamento tra il Central Park e il Lincoln Center, a New York. Me ne aveva già accennato un vecchio amico, il poeta e critico Alien Tate, singolare figura di sudista inquieto, liberale e convertito al cattolicesimo per motivi insieme religiosi e ideologici. La Hardwick, a sua volta poeta raffinato ma più colto che creativo, era la moglie di Robert Lowell, poeta, invece, tra i più significativi del secondo Novecento. Separati, si incontravano spesso, e Lowell morì di infarto nel '77 proprio mentre si recava da lei. Da Hardwick e Tate seppi del progetto, che li entusiasmava, e del disinteresse: dal momento che il finanziamento editoriale era modesto, avrebbero uolìaborato gratis, almeno all'inizio. Non prevedevano ancora il successo che premiò l'iniziativa. Anche se Tate e un altro comune amico, il romanziere Robert Perni Warren, erano di matrice sudista, considerati disertori dai conservatori della vecchia Dixie, non a caso la nuova, ambiziosa e coraggiosa pubblicazione portava nel titolo il riferimento a New York. I promotori dell'iniziativa, infatti, appartenevano in larga parte al mondo intellettuale newyorchese, e non certo a quello del Village, che guardavano dall'alto in basso. Lo si capì fin dal primo numero. Intendiamoci: i collaboratori godevano della massima libertà, e non si facevano certo condizionare dagli editori, cui bene o male erano legati sia il supplemento letterario del New York Times sia, in qualche misura, la pubblicazione alla moda per eccellenza, il iVew Yorker. Se la JVew York ofBooks nasceva sostanzialmente come organico panorama di recensioni, con una misura critica rigorosa dal punto di vista metodologico, dando vita a veri e propri microsaggi, si affermarono gradualmente gli editoriali, i commenti politici e di costume. Sta qui la dimensione programmatica del nuovo mensile, nel senso che almeno un fattore cruciale legava redattori e collaboratori, vale a dire ima visione della letteratura che negava le pure e semplici valutazioni estetiche, e tanto meno il giudizio di per sé. In altre parole, se la scelta privilegiava un concetto di letteratura «alto», fin quasi a diventare esclusivo, e in questo senso Lowell costituiva un'autentica pietra di paragone, contava con non minore attenzione l'avvenimento pubblico e persino politico. Come ha osservato acutamente uno studioso americano, Charles Molesworth, un evento, una figura pubblica si dovevano affrontare, ma in una chiave tutta particolare, proprio come si fa con ima poesia o un romanzo. Inutile dire che la prospettiva era liberale, se non occasionalmente radicale. Un esempio irresistibile, nel 1973, ai tempi dello scandalo Watergale, fu un finto discorso del Presidente Nixon in cui dichiarava che non si sarebbe mai dimesso. L'autore di questo pezzo di bravura si chiamava Philip Roth. La cultura, il potere e la società apparivano strettamente legati, e in questa prospettiva andavano affrontati. Watergate e la guerra in Vietnam occuparono considerevole spazio sulla New York Review of Books. ma va sottolineato che non minore impegno fu dedicato a sostenere i dissidenti sovietici e a denunciare i gulag. Grazie a una firma prestigiosa, Michael Wood, si discusse fin dall'inizio Hollywood, mentre il fenomeno dei comedians, gli attori di cabaret impegnati (da cui nacque Woody Alien) trovò posto, culminando nel ribelle Lenny Bruce, purtroppo banalizzato in un film da Dustin Hoffman. Reso onore ai meriti della JVew York Review of Books, bisogna prendere atto eh quel tanto di aristocratico e di esclusivo che l'ha sempre caratterizzata. Sotto questo profilo, le antipatie e i rifiuti hanno un'incidenza prec.sa. Dal punto di vista critico, niente concessioni al fenomeno della decostruzione, da Derrida a Paul de Man. Invece, propeiisione dichiarata per gli storici liberali americani e inglesi, per i teorici del post-moderno, ospitalità a Starobinski, e dichia¬ rata simpatia per Roland Barthes. Di Barthes scrisse un intenso necrologio, nell'BO, Susan Sontag, che sulla Review si affermò fino a diventare un'autentica icona accanto alla più anziana Mary McCarthy, a Noam Chomsky, al Tniman Capote diAsan^ue^reddo o al Norman Mailer del JVudo e i/morto. Un'altra antipatia riguardò la «beat generation» cui la Review negò quasi diritto di cittadinanza, anche se con il tempo attenuò questo atteggiamento, ribaditomi una volta con vis polemica da Lowell. No a Ginzberg, no a Kerouac, no a Ferlinghetti. Di narrativa uno dei prediletti è stato sempre John Updike, colonna della rivista, naturalmente con Philip Roth, Saul Bellow e i postmodemisti, che mai hanno sfondato in Italia, come John Barth e Thomas Pynchon. In poesia John Berryman, di indiscussa statura anche nel tormento che lo portò al suicidio e che il lettore italiano può trovare in eccellente edizione einaudiana. In quarant'anni, la Review non ha conosciuto crisi, ma molte imitazioni generalmente sfortunate. In Italia modestamente ci abbiamo tentato con L'Indice e sopravviviamo. La Review è ancora forse una cittadella, certo un modello. nmm1 m s psmii La skyline di New York. Sotto, da sinistra, le caricature di Philip Roth, Robert Lowell, John Updike e Mary McCarthy eseguite da David Levine, abituale illustratore della «Review» TsZp:- r-Vvi^s^-- \llJ

Luoghi citati: Hollywood, Italia, New York, Vietnam