CADUTI PER LA PACE

CADUTI PER LA PACE L'IMPEGNO DEI CONTINGENTI TRA EROISMO E LUTTI CADUTI PER LA PACE Le missioni degli italiani dal dopoguerra a oggi Mara Montanari Quel sabato di luglio di dieci anni fa, all'aereoporto di Ciampino, la cappa umida dell'afa estiva aveva un sentore quasi africano. Autorità e generali, immobili, sotto il sole cocente. Il tonfo metallico delle bare di zinco sull'asfalto. I singhiozzi di una ragazza bionda e minuta, studentessa di medicina. Era corsa a Roma, lasciando nell'armadio, a casa, il suo abito da sposa. Giusy De Stefano allora aveva 24 anni e di lì a un mese avrebbe sposato Stefano Paolicchi. Toscano, figlio di un muratore, giovane para della «Folgore», ma con una certa esperienza alle spalle. Missioni di pace in Libano, in Iraq e poi in Somalia. Doveva essere l'ultima, giusto per mettere da parte qualche soldo per il matrimonio. Poi, si sarebbe fatto assegnare a incarichi d'ufficio. Stefano Paolicchi è morto a Mogadiscio il 2 luglio 1993, negli scontri attorno al «check point» Pasta, vecchio pastificio nella zona Nord della capitale somala. Quel giorno rimasero uccisi anche il sottotenente Andrea Millevoi e il militare di leva, Pasquale Baccaro di 21 anni, figlio di contadini del Salento. Dal dopoguerra, fino alla strage di ieri a Nassyria, i militari italiani uccisi durante missioni di pace erano cinquantacinque. Tre della Marina, 28 dell'esercito, compresi 4 carabinieri, e 24 dell'aeronautica. Sono appunto aviatori, i primi caduti di questo triste elenco. Finora «il massacro di Kindu», come viene ricordato, era stato l'episodio più sanguinoso. Tredici aviatori vennero fatti a pezzi da un gruppo di ribelli dell'armata nazionale congolese. Ci furono anche oscure voci di atti di cannibalismo. Accadde l'il novembre del 1961. Esattamente 42 anni prima del nuovo drammatico primato dei caduti di ieri in Iraq. Numeri, cifre, nomi su lapidi di marmo osservate fugacemente nei corridoi di qualche caserma. Ma dietro all'elenco muto, ci sono le storie di cinquantacinque persone e la Storia, quella con S maiuscola, dell'uso dei militari nelle cosidette «missioni umanitarie». Il giomo successivo al «check point» Pasta, il generale Bruno Loi, comandante del continente italiano a Mogadiscio, disse che «l'incantesimo» si era rotto, che la missione di pace si era rivelata per quel che era; la partecipazione a una guerra. Ma questo non se lo aspettavano Paolicchi, Baccaro o Millevoi. Nelle telefonate a casa dicevano alle famiglie di stare tranquille. «Io ero convinto che mio figlio rischiasse poco raccontava il padre di Millevoi - mi diceva che stava al sicuro, su mezzi blindati». Non se l'aspettavano di certo di morire una mattina di settembre, nel cuore dei Balcani, Marco Betti, Giuseppe Buttaglieli, Marco Rigliaco e Giuliano Velardi del 46" Stormo. Il 3 settembre del 1992 erano partiti da Spalato diretti a Sarajevo a a bordo di un G 222, aereo da trasporto. Lo scopo delle missione era quello di portare ai profughi di guerra cinque tonnellate di coperte. I resti di quelle coperte, dell'aereo e dei corpi dei quattro avieri furono sparsi nel raggio di oltre un chilometro tra i boschi del monte Zec, a quaranta chilometri da Sarajevo. Il G 222 fu colpito da due missili. L'allora presidente del Senato, Giovanni Spadolini, uscendo dai funerali nella cattedrale di Pisa, commentò: «Sono favorevole alle missioni Onu ma i corridoi aerei così come sono, non sono assolutamente sicuri». In occasione di un anniversario Rodolfo Betti, padre del pilota del G 222, ha inviato una lettera a un quotidiano locale. «Mio figlio Marco e tre colleghi furono spediti in quell'inferno privi di sistema di difesa passiva antimissile, privi di paracadute. Ai funerali, ho stretto la mano ai politici solo perché mia moglie me lo aveva chiesto, scongiurandomi». Dopo «il massacro di Kindu», il primo militare italiano caduto durante una missione umanitaria, fu un ragazzo di vent'anni. Era il 1983. Si chiamava Filippo Montesi ed era nato a Fano, una cittadina marchigiana che ha già il sapore di Romagna. Aveva chiesto di essere esonerato dal servizio di leva in quanto figlio unico di madre vedova. Il papà era morto nel '70 e l'unico fratello, Venenzio, era scomparso in un incidente nel '79. L'autorità militare respinse la domanda di Filippo. La madre. Maria Sorcinelli, 44 anni aveva un lavoro come bidella e riceveva la pensione del marito. Questo, secondo l'esercito, era sufficiente a respingere la richiesta. Filippo venne arruolato e chiese di far parte del battaglione «San Marco». «Non voglio passare un anno buttato in un angolo di una caserma - disse alla madre sarà un po' più dura, ma magari imparo qualcosa». A settembre del 1982 Montesi venne inviato in Libano. Il 14 aprile dell'anno successivo sarebbe dovuto rientrare in Italia. Ma alle 21 e 30 del 15 marzo, Filippo si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato. Doveva essere un nonnaie giro di perlustrazione nella zona del campo palestinese di Burj El Brojne. All'improvviso, una raffica di mitra. Filippo Montesi morì una settimana dopo nella clinica di neurochirurgia dell'Umberto I di Roma. La madre. Maria Sorcinelli, rifiutò i funerali di Stato. Al capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Menassi, quella donna modesta, rimasta sola al mondo, disse senza una lacrima: «Dica al presidente Pertini che se vuole venire ai funerali, sarò contenta. Gli altri non li voglio». Alle 10 e 30 del 24 x-iarzo, Pertini si presentò nella chiesa di Santa Maria Goretti, nel quartiere di Sant'Orso, zona popolare di Fano. L'anziano presidente andò dritto verso la madre di Filippo Montesi. Non le disse nemmeno una parola. Si limitò ad abbracciarla, a lungo. Fino alla strage di ieri i militari italiani uccisi durante le operazioni di peace-keeping erano cinquantacinque Tre della Marina 28 dell'Esercito compresi 4 carabinieri e 24 dell'Aeronautica Un carabiniere con un gruppo di bambini a Nassiriya Bersaglieri in pattugliamento in una strada di Nassiriya, dov'è avvenuto l'attacco ai carabinieri