«Hanno bisogno, noi italiani non li abbandoniamo» di Carla Reschia

«Hanno bisogno, noi italiani non li abbandoniamo» LA SCELTA DEL NOSTRO COMITATO DI PORTARE A TERMINE LA MISSIONE «Hanno bisogno, noi italiani non li abbandoniamo» Ogni giorno 250 persone si rivolgono al pronto soccorso da tutto il Paese intervista Carla Reschia AL Comitato Centrale ne abbiamo discusso ma in realtà non c'è stato molto da dire perché eravamo tutti d'accordo. Hanno ancora bisogno di noi e la Croce Rossa Italiana non ha mai abbandonato chi chiedeva il suo aiuto; in Turchia come in Kosovo o in Cecenia...». I dirigenti della Cri hanno solo parole di lode per il commissario straordinario, Maurizio Scelli, e per la decisione di confermare la presenza italiana in Iraq malgrado l'abbandono del Cicr, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che ha annunciato la chiusura «temporanea» delle sue sedi di Baghdad e Bassora. «Nessun contrasto con loro», tiene a puntualizzare Scelli, «solo la consapevolezza che la nostra presenza è più che mai necessaria». Una convinzione condivisa dagli operatori sul campo. Roberto Baldassarelli, veronese, 53 anni, in Cri da più di trenta, «una moglie paziente», è il capo missione uscente a Baghdad. Lascia il posto a Fabio Strinati - il tum over è di 30-40 giorni - ma ritornerà; è stato lui ad accompagnare i primi italiani della Cri, alla fine di aprile, e l'Iraq gli è rimasto nel cuore. La situazione è davvero pericolosa come si dice? «Sì, lo è. Ho visto com'era ridotta la sede del Comitato intemazionale dopo l'attentato del 27 ottobre e posso capire la loro scelta. Però, e sia detto senza alcun spirito di polemica, la Croce Rossa è nata sui campi di battaglia, a Solferino e a San Martino». Il personale le sembra demotivato, ha paura? «C'è la giusta dose di paura perché s'inneschi la prudenza ed è bene così. Del resto, se io dovessi giudicare la situazione soltanto dal modo in cui siamo trattati noi, non la troverei per nulla minacciosa; la gente ci saluta per strada con il pollice alzato, ci applaude, ci sorride. Ci dimostrano gratitudine e amicizia e questo è un incentivo a fare meglio e di più e soprattutto a non lasciarli al loro destino». Dall'inizio della missione il numero di persone impegnate nelle operazioni di soccorso è rimasto invariato? «No, ad aprile eravamo circa una settantina fra sanitari e tecnici, ora l'organico è di 32 persone. Ma solo perché allora avevamo l'ospedale da campo e la struttura era più complessa; dovevamo anche occuparci del- la cucina. Con successo, direi, perché tutti gli inviati italiani cercavano di essere nostri ospiti. Da ottobre invece siamo al Medicai City Center, un grande ospedale ai Baghdad dove abbiamo in gestione due reparti e dove abbiamo instaurato una splendida sinergia con i medici locali. Con noi collaborano 50 persone fra personale sanitario e interpreti e la loro abnegazione è esemplare». Di che cosa vi occupate esattamente? «Al piano terra curiamo il pronto soccorso e l'accoglienza; 250 persone al giorno in media, a cui forniamo un'assistenza completamente gratuita. E' importante sottolinearlo perché questo significa che a noi si rivolge la fascia più povera della popolazione, quella che potrebbe restare senza alcun aiuto. Al sesto piano invece c'è la degenza, che ci permette di affrontare i casi più complessi. Abbiamo al nostro attivo 500 L.'erventi chirurgici e possiamo effettuare fino a 40 tipi di analisi di base. Ci sono biologi, pediatri e altri specialisti. Alcuni dei quali particolarmente preziosi per patologie specifiche che gli altri ospedali iracheni affrontano con difficoltà. Ad esempio? «Le ustioni. Su circa 30 mila pazienti visitati dall'inizio della missione, 3000 erano grandi ustionati. Ma la guerra c'entra relativamente, è soprattutto un problema domestico. Spesso si bruciano con il kerosene che usano per riscaldarsi e per cucinare». Scelli per motivare la decisione di restare ha detto anche che in questi mesi il rapporto con gli iracheni è diventato «viscerale». «E' vero, è proprio così. Da noi arriva gente da tutto l'Iraq, persino dal Kurdistan. Credo che il segreto sia la capacità di creare rapporti umt ni e non solo assistenziali. I sanitari iracheni hanno un'eccellente preparazione ma risentono ancora della rigidità del sistema dittatoriale, sono più distaccati, più "burocrati". Con noi i pazienti possono lasciarsi andare, instaurare un legame di amicizia. E' questa la ragione per non andarsene? «La ragione, banalmente, è che gli iracheni ci chiedono di restare e che la nostra presenza è utile. Le racconto un episodio. L'ambulatorio è aperto dalle otto di mattina alle sette di sera. Dopo il tramonto girare per Baghdad può essere rischioso e si cerca, nei limiti del possibile, di evitarlo. Bene, una sera avevamo già fatto tardi perché un paziente tardava a svegliarsi dall'anestesia - mentre stavamo per uscire è entrato di corsa un ragazzino, avrà avuto 12 anni, con delle brutte bruciature. Si è fermato, ci ha guardato e ci ha chiamato. "Taliani", ha detto. Bene, quella volta l'ambulatorio ha chiuso alle dieci e le assicuro che nessuno ha protestato». CLCL, Sia detto "w senza alcuno spirito di polemica ma questa organizzazione è nata sui campi di battaglia w Un operatore della Croce Rossa Italiana, Alessandro Pozzetto, al capezzaledi una donna all'ospedale Adnan Kher Allah

Persone citate: Alessandro Pozzetto, Fabio Strinati, Maurizio Scelli, Roberto Baldassarelli, Scelli, Spesso, Taliani