Delitto Biagi, la Lioce gira le spalle ai testimoni di Vincenzo Tessandori
Delitto Biagi, la Lioce gira le spalle ai testimoni LA BRIGATISTA SI E' MESSA LE MANI SUL VISO E HA RIFIUTATO IL CONFRONTO CON I 15 TESTI Delitto Biagi, la Lioce gira le spalle ai testimoni Vincenzo Tessandori BOLOGNA «Processo di rottura», come lo chiama l'avvocato francese Jacques Veigères che difese quelli del Fin algerino eppoi Carlos (do Sciacallo», il più celebre fra i terroristi, fino all'avvento di Osama bin Laden. L'imputato non riconosce, dunque rifiuta, l'autorità dello Stato e le sue liturgie. Tutto questo dovrebbe spiegare perché, ieri mattina, nel carcere bolognese della Dozza, quella donna ha girato le spalle al vetro a specchio dietro al quale avrebbero dovuto alternarsi quindici testimoni dell'agguato mortale a Marco Biagi, 19 marzo 2002. Nadia lioce milita nelle «brigate rosse 2000», ed è stata catturata il 2 marzo scorso, al termine di uno scontro a fuoco sul treno Roma Arezzo concluso con la morte di Emanuele Retri, soprintendente di polizia, e Mario Galesi, brigatista. Per il testimone era la prima a destra. Vestita con gonna e maglione, accanto, due agenti, più o meno della stessa età, più o meno dello stesso tipo, una addirittura «assai simile», anche se il difensore, Attilio Baccioli, ha voluto precisare che «le due non è che le assomigliassero moltissimo». Fatto sta che la decisione della brigatista è stata repentina e definitiva. Arrivata poco prima delle 10 dal carcere fiorentino di Sollicciano, aveva anticipato a Gabriella Castore, giudice per le indagini preliminari: «Non intendo essere sottoposta alla ricognizione». La legge lo consente. «Ha rifiutato», ha commentato l'avvocato Guido Magnisi, legale della famiglia Biagi. «Diciamo che anche un rifiuto ad essere sottoposta a ricognizione, che non dimentichiamo è anche uno strumento a favore della difesa, possa essere liberamente valutato dai giudici. C'era uno scoglio logico perchè la stessa coazione tradisce già lo spirito della ricognizione. A parte il ri¬ spetto dei principi costituzionali, si sarebbe dovuto legare Lioce? Lo stesso si sarebbe dovuto fare con le altre due donne, in una sorta di commedia dell'arte». Il punto è che il rischio, la speranza, l'attesa alla brigatista sembrano non interessare e Baccioli chiarisce come lei «ritenga al di fuori delle possibilità di accettazione da parte di un prigioniero politico il partecipare in qualche modo attivamente a un'indagine processuale». Anche se subito dopo l'avvocato non si nega una nota di prudenza: «Eppoi, sull'inchiesta non avrà alcun effetto e l'unico testimone sentito ha detto che si era sbagliato. Il rifiuto della Lioce nasce da altre motivazioni, non dalla paura della ricognizione in sé, che considera un gioco di burattini, un indovinello. Questo confronto è stato un'iniziativa del pubblico ministero legata al carattere traballante dell'ordinanza di custodia cautelare, in attesa della decisione della Cassazione. Mi ero opposto e, d'altra parte, se fosse riuscito, sarebbe stato portato come elemento in più». Insomma, d'accordo ostentare indifferenza per la «giustizia borghese», ma non si sa mai. Fatto è che il testimone, già al prologo dell'atto istruttorio, quando viene verbalizzata la descrizione della persona da riconoscere, aveva anticipato di esser certo dell'errore. Perché quella donna minuta, alta un metro e 50, notata nei giorni vicini all'agguato ferma alla fennata del bus di Pianoro, presso Bologna, lui l'aveva rivista nel mese di giugno e la bierre era in galera. In ogni modo la brigatista ha spazzato ogni incertezza: prima si è tolta le scarpe, imitata subito dalle controfigure, poi ha voltato le spalle e si e messa le mani davanti al viso. Era finita, l'esperimento non verrà ripetuto, all'avvocato Baccioli è rimasto il tempi di informarla del lungo comunicato letto in un'aula romana da 7 brigatisti irriducibili accusati di omicidio e rapina a un furgone blindato. «Me l'aspettavo», il commento di Nadia Lioce, ha detto Baccioh. Come forse si aspettava quanto hanno scritto Francesco Aiosa, Cesare Di Lenardo, Stefano Minguzzi e Ario Pizzarelli, accusati di propaganda sovversiva per aver letto, il 26 marzo scorso, in un'aula d'appello, una dichiarazione per «rendere onore al compagno Mario Galesi». Ieri al gip Bruno Giordano hanno inviato un documento nel quale confermano di essere «militanti delle brigate rosse prigionieri» e dicono fra l'altro che «chiari sono il ruolo storico, le responsabilità dello Stato che ci tiene prigionieri e ci processa, e la sua collocazione attuale nella lotte tra le classi su scala intemazionale e intema. Chiari sono materialità e significato del conflitto che ci oppone». Insomma, pure loro pensano di interpretare un «processo di connivenza».
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