Il mal d'Africa dei volontari in prima linea tra i più poveri

Il mal d'Africa dei volontari in prima linea tra i più poveri LE TANTE RAGIONI DELLA «MULTINAZIONALE DEL BENE» Il mal d'Africa dei volontari in prima linea tra i più poveri Spinti dalla fede o da ideali politici abbandonano le comodità dell'Occidente Al rientro in Italia spesso si sentono stranieri in patria e sono pronti a ripartire le storie Giacomo Gaieazzi ROMA SILENZIOSI, capaci di quotidiano eroismo, «angeli custodi» nella cupa miseria dei villaggi africani, invisibili, praticamente inesistenti per i grandi circuiti della comunicazione globale. Sono gh operatori della solidarietà nel Terzo Mondo, i volontari senza volto (religiosi e laici) in prima linea in paesi in cui si muore pure per un sorso d'acqua. Sono le tante Annalena Tonelli che si sono lasciate alle spalle le comodità d'Occidente per aiutare a sopravvivere i più poveri tra i poveri, arginando le falle gigantesche della sanità pubblica e della cooperazione intemazionale. Li unisce la coscienza che «chi giudica, sarà giudicato; chi aiuta, sarà premiato». Sono i camici bianchi di «Medici senza frontiere» ed «Emergency», che hanno costruito ovunque centinaia di ospedah e posti di pronto soccorso. Un bilancio fatto di mighaia di interventi chirurgici e milioni di persone assistite. Sono i volontari dell'Amref, l'associazione a favore della medicina africana, della Croce Rossa, della Caritas. Sposano la loro missione al punto di «insabbiarsi», taghare i ponti con il passato fino a sentirsi stranieri in patria quando tornano in Italia. Per questo, molti ripartono subito e fanno perdere definitivamente le loro tracce : identità confluite nella multinazionale del bene. Un fenomeno cosi forte da spingere l'associazione Volontari per lo sviluppo a delineare l'identikit del «reduce», tra difficoltà a riprendere i ritmi di vita occidentali, incomprensione della gente, voglia di ripartire. Sono i principah sintomi del «mal d'Africa» che colpisce quasi tutti gh operatori al rientro in Italia, a testimonianza di un'esperienza capace di segnare in modo indelebile la vita di ciascuno. Seicento volontari rientrati dai paesi in via di sviluppo si sono dati appuntamento il 6 dicembre a Veronasotto l'egida del Focsiv (lafederazione delle Ong di ispirazione cristiana). Tutte persone che hanno deciso di dedicare più anni della loro vita a lavorare gratuitamente nel Terzo Mondo. Un prisma con le mille facce deh'altruismo, da cui scaturisce il profilo dell'operatore di solidarietà. Il «volontario medio», infatti, ha un livello d'istruzione alto, nel 75^0 dei casi arriva da esperienze di volontariato prece¬ denti e spessa non si limita a ima sola missione, ma parte più volte in progetti diversi (oltre il 500Zo). Perché lo fanno? In genere si prende la rotta africana per le motivazioni più varie: fede, politica, desiderio di mettersi alla prova. Davide, ingegnere, volontario «Cuanun» per un triennio in Uganda, ha lasciato Milano «per la voglia di conoscere il mondo e per il bisogno di trovare un lavoro che mi appagasse e desse un senso alla mia vita». Nel caso di Vinicio della «Casa Charles De Foucauld, l'esperienza vissuta in Congo come responsabile di un progetto agricolo, è stata soprattutto una sceltapohtica, sbocciata dall'impegno già assunto in Italia. Lucia, dell'associazione «Mondo Giusto» di Lecco, è stata spinta, invece, dalla volontà di correre in soccorso dei bisognosi. Per Marco, prima volontario «Cuamm» in Rwanda e poi in Uganda e Sudan con l'Avsi, si è trattato di una scelta professionale. «Ero libero da impegni di lavoro e conoscevo persone che operavano nel mondo della cooperazione spiega- mi è stata offerta la possibilità di partire e non me la sono lasciata sfuggire. E' stato utile a creare uno sbocco professionale che quest'anno ho perfezionato grazie al primo master in cooperazione allo sviluppo organizzato all'università di Padova. Una specializzazione che spero mi permetterà di fare altre esperienze in giro per il mondo». Un mix di ragioni, dunque: dalla spinta umanitaria e di fede alla voglia di viaggiare, di conoscere persone di culture diverse, fino alla ricerca di un mestiere. Ad accomunare questi frammenti di vita le difficoltà al rientro. Problemi di reinserimento lavorativo, crisi a livello emotivo e di relazioni sociali. Come Mirella del «Ccm» di Milano: «Dopo aver trascorso due anni in un ospedale, in pieno deserto nel nord del Kenya, mi sembrava di essere tornata in un mondo di pazzi e ancora oggi, a distanza di sei anni, continuo a pensarla così. In Africa il 900Zo delle cose che si facevano erano indispensabili per vivere, qui in Italia il 9007o è invece del tutto superfluo». Uno smarrimento condiviso da Davide del Cuamm: «La difficoltà più grande è stata il riaccettare un tipo di lavoro che ai miei occhi non appariva più completo anche da un punto di vista etico. Dover lavorare per il profitto di qualcun altro, dover accettare delle regole che l'esperienza di volontariato mi avevano portato a contestare». Maria, per un quinquennio in Burundi con il Cisv di Torino, ribadisce che la sua esistenza sarebbe stata molto più povera di significati senza il lavoro da sarta portato avanti a fianco delle donne dei villaggi africani. La maggioranza dei volontari rientrati (più dell'80%) alla domanda se ripartirebbero in un altro progetto rispondono senza esitazione di sì. Tornati in Italia, il 3607o ha continuato il lavoro precedente, altri hanno decisamente cambiato settore, molti hanno mantenuto i contatti con le Ong di appartenenza (V85 Vo), ma c'è anche qualcuno che è restato deluso dalla gestione dei progetti, come Elena del Celim di Milano, educatrice in Mali nel biennio 1997-98. «Pur non mancando le contraddizioni, rimane comunque in tutti i volontari rientrati la sensazione di aver vissuto un'esperienza determinante per la propria vita», osserva il curatore della ricerca Fabrizio Celiai.

Persone citate: Annalena Tonelli, Charles De Foucauld, Davide Del Cuamm, Del Bene, Mondo Giusto