Dionisotti, Bembo e la lente della libertà

Dionisotti, Bembo e la lente della libertà UN LIBRO AL GIORNO Dionisotti, Bembo e la lente della libertà Bruno Quaranta DISCENDE per li rami di Pietro Bembo questo viaggio ritrovato di Carlo Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento (era uscito da Le Mounier nel 1968, ora ritoma con scritti di Vincenzo Fera e Giovanni Romano). Fu lo stesso filologo e storico della nostra letteratura, scomparso cinque anni fa, a rivelare che il «volumetto» nacque ulteriormente aggirandosi intomo al «maggiore» veneziano, autore fra l'altro di Prose della volgar lingua (si riconosceva al volgare la medesima dignità letteraria del latino). Bembo e dintorni. In qualche modo, per tali studi occorre essere grati al Ventennio, officina di cultura malgré lui. Carlo Dionisotti ricordava di aver posato la lente sui secoli andati talmente irrespirabile era l'aria dell'epoca. E così, sotto la guida di Vittorio Gian, nell'Università torinese si dedicò all'umanista cinquecentesco. Come Delio Cantimori si volse agli eretici (sempre del Cinquecento), Federico Chabod al Rinascimento, Natalino Sapegno al Trecento. Una cammino di libertà, scelse Dionisotti. Piemontese, avvertì l'alfieriana urgenza di spiemontizzarsi, di valicare gli indigeni argini, un'operazione salvifica inaugurata da Alberto Radicati di Passerano, il primo illuminista della Penisola, secondo la definizione gobettiana. Naturaliter intellettuale, sorretto dall'imperativo etico di non tradire, quindi di «servire», si attestò agli albori della lingua, tra gli elementi costitutivi, fondanti, di un Paese, di una comunità, un autentico specchio dei tempi. (A proposito del Ventennio: non asserì che nel 1945 «vennero a scadenza, tragicamente, parecchi debiti contratti dall'Italia unita: anche debiti linguistici, anche i soprusi del regime fascista in cose di lingua»?). «Libertà e tolleranza attengono alla lingua, non meno che alla religione, e più che alla pohtica», avvertiva Dionisotti. Memore che «la nostra grande letteratura comincia con il capolavoro di un esule, Dante, condannato e ribelle, cui fu patria il mondo, e subito continua con un altro grande figlio di esuli, il Petrarca». Dante, Petrarca, Boccaccio, la lingua volgare speculare al ciceronianesimo, la prosa latina dell'umanesimo modellata sui classici. Cicerone in particolare. Il ciceronianesimo quale guida sicura «che indirizzò e agevolò la crescita del volgare nei primi decenni del Cinquecento - spiega Vincenzo Fera -, [...] non un volgare qualunque, ma ordinato sulle coordinate del toscano del Trecento, nel quale si erano trasfuse le architetture del latino». L'acribia che permea i saggi di Carlo Dionisotti è una lezione di civiltà, una trincea opposta alla sciattezza, all'analfabetismo, di ieri e di oggi. Un esempio, ecco, un magistero, di cultura e vita morale: «Non siamo nati per fare storia né romanzo della nostra vita, che è tutta consumata nel nostro lavoro...». Carlo Dionisotti Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento 5 Continents Editions,pp. 7 ?S, 6 15

Luoghi citati: Italia, Le Mounier