Africa, la creazione vien cantando

Africa, la creazione vien cantando SIMBOLI, TRADIZIONI CULTURALI, MECENATI: L'ARTE DI UN CONTINENTE IN MOSTRA ALLA GAM DI TORINO DA OGGI Africa, la creazione vien cantando Claudio Gorller SI racconta che un giorno dei primi anni del Novecento Fabio Picasso e l'amico pittore Maurice Vlaminck stessero ammirando una statua africana di donna. «E' quasi bella come la Venere di Milo», esclamò Vlaminck. E Picasso: «E' più bella!». La statua lignea di chiara impronta africana, opera di Picasso, esposta nella fantasmagorica Mostra-A/nca. Capolavori di un continente, che si apre oggi alla Galleria d'Arte Moderna di Torino, evoca l'aneddoto. L'influsso dell'arte africana in Occidente è ormai un dato di fatto, quasi un luogo comune, accanto, lo sappiamo tutti, a quello della musica. Diciamo allora che la Mostra torinese assesta un colpo mortale a un altro luogo comune che ha percorso la cultura europea, addirittura da Hegel, da Marx, da Mazzini, allo stesso Schweitzer, fino a buona parte del secolo scorso: la cultura africana, i popoli africani, come esempio di «primitivo» da civilizzare. Vale dunque la pena di approfittare dell'occasione per allargare il discorso, tenendo conto di due elementi fondamentali: l'arco cronologico sul quale l'arte africana si sviluppa: U rapporto dell'arte con la società, o le società afiicane, con le altre espressioni e comunica' zioni, con i fenomeni religiosi, insomma, con la civiltà dell'Africa nera. Pensate che i primi esempi, oggi conservati, di arte africana risalgono a circa ottocento anni prima di Cristo. Con misteriose interruzioni, essa giunge fino a noi, e istituisce rapporti, scambi, in un mosaico, un tessuto di singolare ricchezza. Rammento, tanto per fare un caso, le rovine della città di Zimbabwe, che ha dato il nome all'ex Rhodesia, con le sue muraunponenti, la sua vertiginosa acropoli. Siamo tra il 300 e il 1450 dopo Cristo, a testimonianza di una civiltà di travolgente raffinatezza, ma soprattutto di scambi con paesi e popoli anche remoti, ben oltre l'Africa. In un audace capovolgimento di prospettiva, discusso ma non infondato, lo studioso Bernal Martin, in Athena nera, libro che raccomando, ha scorto nell'arte greca un'influenza africana. Qualche notevole pezzo esposto a Torino sembra dargli ragione. L'Africa pre-coloniale, pur nella sua varietà etnica e sociale, può essere vista e studiata come espressione di una civiltà unitaria. Sono stati i paesi colonialisti, partendo dalla fine dell'Ottocento, a spezzettarla e a inventare paesi disoreanici a cominciare dal nome, com è il caso della Nigeria. Nel suo romanzo epico Tivo Thousand Seasons, duemila stagioni, ossia mille anni, purtroppo non ancora tradotto in italiano, il grande scrittore ghaniano Ayi Kwei Armah ha rappresentato l'Africa come un autentico e variegato universo, un Eden caduto sotto i colpi prima delle invasioni arabe e poi del colonialismo occidentale. L'arte, o meglio le arti, scaturivano in Africa fin dalle origini grazie a impulsi diversi. Uno derivava, quasi naturalmente, dal patronato dei grandi re o dai capi locali. Dal Mali fino alla punta meridionale, dagli altipiani dei Masai fino a Zimbabwe, o alla magica Benin City, saccheggiata senza pietà dagli Inglesi, gli artisti lavoravano grazie al mecenatismo, naturalmente interessato, delle corti. Ma attenzione: essi, come i cantastorie nella loro fascinosa oralità, gli autori spesso anonimi di teatro, non esprimevano un'elite, perché affondavano le loro radici nelle comunità, rappresentando la sensibilità, i gusti, la fede della gente anche comune, uomini e donne. Si affermavano gli sciamani, e ancora oggi scrittori e drammaturghi come, poniamo, Wole Soyinka, sono venerati persino da chi li conosce soltanto per sentito dire. Il triangolo natura, individui, divinità, innerva la mitologia africana, la visione della vita, la creatività. Gli dei sono in qualche modo inventati dalle comunità, e in esse si incarnano. I leggendari antenati della popolazione del Mali, i Nommo, discesero dal cielo all'inizio di tutti i tempi, e sono presenti nella memoria, nel quotidiano, nelle ^ testimonianze artisti¬ che e di coihunicazione. Ancora nel Mah si crede che Chi Wara, il mitico inventore dell'agricoltura, si sia sepolto nella terra-atto di deliberato sacrificio per propiziare il fiorire delle coltivazioni: simbolo, tra l'altro, della durezza e, appunto, del sacrificio di chi lavora la terra. Ecco: simbolo, o allegoria, sostanziano la cultura africana, la quale è essenzialmente antirealistica, spesso surreale, talora effimera. Un caso esemplare si trova nel cosiddetto mbari nigeriano. Mbarì, nella sua spettacolarità, è un edificio, una «casa di immagini», eretto per ospitare un gruppo di individui espresso dalla comunità, gremito di sculture e dipinti. Per mesi, e magari per anni, gli occupanti rivivono il miracolo della creazione, con canti e danze. Alla fine, l'edificio, assai fragile, viene distrutto. La polivalenza dello mbari si riflette nel quotidiano ma anche nell'inventività. Chinua Achebe, il grande scrittore di lingua inglese i cui principali romanzi sono stati tradotti anche in italiano, nel descrivere in un suo saggio la performance dello mbari, se ne appropria. Sarei tentato di dire, e mi è accaduto di farlo in qualche mio scritto, che la narrativa di Achebe si presenta come una serie di variazioni sullo mbari. Così, arte, linguaggio, realtà e simbolo si fondono a caratterizzare un aspetto cruciale della cultura africana. Il romanzo, in crisi nella cultura occidentale, è stato letteralmente reinventato in Africa, non meno della tragedia (ancora Soyinka) nella sua sacralità, nella sua epifania, nella sua ritrovata catarsi, perdutasi da secoh in Occidente. Achebe, in un suo saggio volutamente fazioso, ha demohto l'Africa di Joseph Conrad in Cuore di tenebra. Non sono d'accordo, ma ne comprendo le motivazioni: lo scrittore intende rilegittimare la sua cultura, per lui distorta dall'Occidente. Allora concediamo agli autori africani una orgogliosa quanto polemica rivendicazione di sé. Come nei versi del sudafricano Sipho Sepamla, che considero un amico: «la prima volta che ho incontrato Satana sulla terra/devo essere onesto/non era soltanto l'educazione bantu/era tutto parte di ciò che essi dicono è la civiltà occidentale». giorno dei cento Faco pittore ro ammina di donla Venere nck. E PiLa statua a africana, nella fana. Capolahe si apre Moderna di . L'influsccidente è quasi un lo sappiaa musica. tra torinertale a un a percorso rittura da zzini, allo a buona la cultura ani, come a civilizzai approfitallargare il di due eleco cronolofricana si ll'arte con icane, con munica' eligiosi, à delemarte rca Criru a ti, un ce sua vertiginosa acropoli. Siamo tra il 300 e il 1450 dopo Cristo, a testimonianza di una civiltà di travolgente raffinatezza, ma soprattutto di scambi con paesi e popoli anche remoti, ben oltre l'Africa. In un audace capovolgimento di prospettiva, discusso ma non infondato, lo studioso Bernal Martin, in Athena nera, libro che raccomando, ha scorto nell'arte greca un'influenza africana. Qualche notevole pezzo esposto a Torino sembra dargli ragione. L'Africa pre-coloniale, pur nella sua varietà etnica e FINO ALT 5 FEBBRAIO La mostra Africa, capolavori da un continente resterà aperta fino al 15 febbraio alla Gam di Torino tutti i giorni dalle 9 alle 19 (lunedì chiuso). Biglietti: intero e 7,50, ridottoes.scuolees. Informazioni e prenotazioni: www.mostraafrica.it, cali center 899.500.001. Catalogo ArtificioSkira, C 38. Nell'immagine un bronzo del XV-XVIsec. dalla Nigeria sociale, può ecome espresunitaria. 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