Il boulevard del TRAMONTO di Cesare Martinetti

Il boulevard del TRAMONTO IL MALE OSCURO DELLA FRANCIA: DALL'ECONOMIA ALLA VITA PUBBLICA AL PRIVATO, LA SCOPERTA DI UN DECLINO CHE METTE PAURA Il boulevard del TRAMONTO Cesare Martinetti corrispondente da PARIGI ALLA festa dei cinquant'anni c'era Catherine Deneuve, Nadine de Rotschild ci andava a comprare i collant, Marguerite Duras le sue famose maglie chiare dolcevita. Per snobismo più che per risparmio. Da qualche giorno i grandi magazzini Tati, «au vrai cheap parisien», sono in liquidazione. Finisce una leggenda datata 1948, quando l'ex sommergibilista tunisino Jules Ouaki, in un negozietto di 50 metri quadrati, ha cominciato a vendere a prezzi stracciati lingerie che gli arrivava dalla Tunisia, a Barbès, dalle parti di Montmartre, tra gli ultimi bordelli e i bistrot della mala. I 50 metri sono diventati negli anni i 10 mila di oggi, Tati e le sue stoffe a quadretti bianchi e rosa «à bas prix» il simbolo della Parigi popolare, come un film di Jean Gabin. Morto Jules, il figlio Fabien, che è huddhista e voleva fare il musicista, in pochi anni ha mandato in malora la baracca. Amen. È una piccola storia nella grande crisi francese che consente al Nouvel Observateur di ricostruire i «nostri anni Tati» con immagini caotiche di quel grande magazzino lacerato da colori improbabili che solo una città supersnob come Paris poteva elevare a mito: «Tati era un'alluvione di vita, dove si mescolavano etnie, taglie, età, portafog.i iì peggio e il meglio». Vibrazioni nostalgiche tipo «come stavamo meglio quando eravamo più poveri». Ma la verità è che la Francia è già più povera e soprattutto ha una grande paura di diventarlo a giudicare dalla crisi di nervi che attraversa i giornali da quando è apparso l'acido libretto di un economista sui generis, Nicolas Baverez, perfidamente intitolato La France qui tombe, la Francia che crolla. Senza punti interrogativi. In sintesi Baverez sostiene che, dalla crisi, la Francia sta scivolando verso un declino strutturale. Vecchia, statalista, incapace di riformarsi: «La caduta accelera». Dati 2003: crescita zero, disoccupazione al 10 per cento, 13 per cento la caduta degli investimenti, deficit al 4,1 e debito al 62 per cento del prodotto intemo lordo. «Il blocco dell'economia scrive Baverez - non dipende né dalla congiuntura né da un'anomalia passeggera». Negli anni 70 il Pil francese era del 25 per cento superiore a quello inglese, ora del 9 per cento inferiore. Nel 2001 la Francia è precipitata al decimo posto tra i quindici dell'Unione europea e al diciannovesimo dell'Ocse per ricchezza prodotta. Dal '95 a oggi il debito pubblico è quasi raddoppiato, le aziende pubbliche hanno perso nel 2002 venti miliardi di euro e hanno accumulato un deficit 130 miliardi. Il mitico service publique francese è un gorgo senza fondo: dal '90 le spese del personale sono cresciute del 38 per cento, gli investimenti del 5 e lo Stato riempie ormai la profezie di Frédéric Bastiat nel 1848: «una finzione attraverso la quale tutti si sforzano di vivere a spese di tutti». La riforma delle pensioni approvata a luglio dal governo Raffarin, secondo Baverez, avrà effetti minimi. Ne sono stati esclusi i regimi speciali dei giganti pubblici Edf (ener- già), Sncf e Ratp (ferrovie e metrò parigino), che nel 2003 arriveranno a 33 miliardi di buco. Non si è ancora nemmeno affrontata la questione della sicurezza sociale che quest'anno contribuirà con 11 miliardi (15 il prossimo) al maxideficit che ha portato Parigi in collisione con Bruxelles. Non era mai avvenuto che un primo ministro francese definisse la Commissione «tei bureau» con tono di disprezzo perché gli chiede di rimanere dentro i parametri di Maastricht. Raffarin l'ha fatto. Ma Baverez sostiene che il crollo del sistema pubblico trascina anche il privato: «La Francia sta diventando un deserto industriale e imprenditoriale». Dalla fine degli anni 80 la creazione di imprese decresce al ritmo del 2 per cento l'anno. Nel 2002 ci sono stati più fallimenti che negli Usa (43 mila contro 40 mila). Le piccole e medie imprese non agricole sono più vulnerabili che altrove e impiegano, per esempio, appena 2,4 milioni di lavoratori (contro i 3,4 della Gran Bretagna che ha più o meno gli stessi abitanti). Il tasso di occupazione è del 58 per cento (72 oltre la Manica), la disoccupazione al 9,3 (contro 4,9). La base industriale «in via di liquidazione»: da 5,6 a 3,7 milioni di lavoratori dal '75 a oggi. I grandi gruppi soffrono. Anche un gigante privato come Alstom (che costruisce Tgv, navi e apparecchiature aerospaziali) ha fatto appello allo Stato per sopravvivere. Il governo ha deciso di buttarci miliardi con un'operazione di rinazionalizzazione che lo porterà ad avere il 31 per cento del capitale. Intervento di dubbia legalità europea: e Monsieur Raffarin troverà duro negoziare col «bureau» del commissario Monti per avere via libera. Eppure (scoop-inchiesta dell'ultimo numero di Le Point) i francesi, in Occidente, sono quelli che lavorano meno: 38 ore e 55 minuti la settimana, 5 settimane e 4 giorni di ferie l'anno. Siamo al punto che JeanClaude Trichet, che sta lasciando il posto di governatore della Banque de France per trasferirsi alla presidenza della Banca Centrale europea, interrogato dai parlamentari di Bruxelles, dice: «l'in not a french man». Intendeva che da quel momento dovevano considerarlo un europeo e non più il rappresentante del suo paese. Ma s'è mai visto un francese che dice «non sono francese»? Nella sua paradossalità, la risposta è rivelatrice e Le Monde ci fa un titolone riprendendo anche, qualche pagina più in là, l'intervista a Panorama del sociologo Alain Touraine che spezza un altro luogo comune: «La Francia è in declino, mentre sull'Italia si può essere ottimisti». Che succede? Marc Lazar, politologo a SciencesPo, dice che Baverez esagera un po' anche se sullo sfondo ha ragione: «Di declino della Francia se ne parla dagli anni Venti ed è da almeno vent'anni che il paese cerca una nuova identi- tà. L'economia dà segni inquietanti, ma è anche vero che questo resta il paese d'Europa più aperto agli investimenti stranieri». Lo stato d'animo collettivo sembra segnato dall' angoscia, confessa Lazar, ma «l'autolesionismo non è una specialità solo italiana». Il punto più preoccupante è il nuovo atteggiamento nei confronti dell'Europa e quello sprezzante «bureau» lanciato da Raffarin verso la Commissione europea appare a Lazar «una follia». Max Gallo, storico e saggista di tendenza «souveraniste» (che potremmo tradurre con «patriottico»), europeista solo nel quadro della conservazione dello «stato nazione» dice che questo ritomo nazionalistico del pendolo francese si spiega col fatto che per anni le élite avevano spostato il baricentro dell'interesse francese fuori dal¬ la Francia, in Europa, appunto: «Ma non ha funzionato, non funziona. Ecco, io credo che usciremo da questa crisi di lunga durata solo con soluzioni in cui i francesi riconoscono la Francia». Per questo Raffarin ha tentato di scaricare le colpe della disoccupazione, per esempio, sui «bureaux» di Bruxelles. Francia, «nation nerveuse», diceva Paul Valéry, che sembra aver già introiettato questo «repli», ripiegamento, su se stessa. Record europeo del risparmio, dice Baverez, 18 per cento dei redditi: i tagli alle tasse sono finiti in banca non per investimenti, con tanti saluti alla crescita che si aspettava. E quando non parlano gli economisti, scrivono i letterati, come Jean-Marie Rouart, academico di Francia, che col suo saggio Adieu à la France qui s'en va è al terzo posto della classifica dei libri più venduti. Rouart, che non è certo un reazionario, nel suo viaggio emotivo tra monumenti e momenti dell'histoire, conclude chiedendo ai politici: «Semplicemente vogliamo che i nostri valori non siano confusi con quelli degli altri». Alla fine di tutto ciò emerge non detta l'attesa di un nuovo De Gaulle, ma «non c'è», taglia corto Max Gallo. E allora anziane «chineuses» e «chipeuses» tuffano le mani nei cestoni di Tati alla ricerca dell'ultimo affare, mentre le giovani «buerettes», le ragazze arabe di banlieue, sono già altrove, da H&M o Zara, i nuovi santuari «a basso prezzo» dove si trovano pezzi copiati dal prèt-à-porter più chic perché alla fine gli stracci colorati qui funzionano sempre. E aiutano anche a tenersi su. Un addo libretto dell'economista Baverez dipinge un Paese vecchio, statalista, incapace di riformarsi: crescita zero, disoccupazione, caduta degli investimenti, «ma non è un'anomalia passeggera» Lo stato d'animo collettivo pare segnato dall'angoscia, confessa il politologo Lazar: «L'autolesionismo non è una specialità solo italiana». Il sociologo Touraine si spinge oltre: «Sull'Italia, però, si può essere ottimisti» Ct Una manifestazione contro la riforma delle pensioni, lo scorso maggio a Parigi