PAURA DEL PEGGIO

PAURA DEL PEGGIO PAURA DEL PEGGIO Igor Man SFRATTARE Arafat, dunque? È quello che fortissimamente vuole, da sempre, Sharon e che, finora, gli è stato impedito dagli Stati Uniti, dai suoi stessi elettori, da non pochi membri del suo gabinetto preoccupati dell'effetto-boomerang dello sfratto. Dopo l'ultima strage di Hamas, tuttavia, e la conseguente uscita di scena del prudente ex palazzinaro Abu Mazen, gli umori sono cambiati in Israele. I due accadimenti hanno convinto persino i (non pochi) critici della politica di Sharon che finché a tirar le fila di questa orrenda sceneggiata-mattatoio sarà Yasser Arafat, il terrorismo suicida non abbasserà la cresta. Che Arafat non abbia né i mezzi né l'intenzione di mettere la mordacchia agli uomini deir«orbo veggente», quel Yassin ch'è il logo vivente di Hamas, è oramai convinzione diffusa, anche alla Casa Bianca. Ma mentre Sharon ha ima sua politica e quella segue, da sempre: «Provocare comunque una escalation poiché ritiene che da un disordine risultante da un aumento di violenza egli uscirà sempre vincitore» (cfr. A. Margalit «Volti di Israele» [Carocci]), Bush sembra temere proprio ima escalation di violenza che finirebbe con l'annullare la splendida vittoria militare in Iraq, accendendo un più vasto incendio in Medio Oriente: una polveriera a cielo aperto, un tragico muro di gomma sul quale, incredibilmente, rimbalza il terrorismo suicida degli sciagurati seguaci di Yassin. La Signora Condi Rice, mente strategica della OvalRoom, non sarebbe più convinta che un «uso intelligente» della forza riuscirebbe a risolvere una crisi che è un vicolo cieco - da qui l'idea di tornare al tavolo verde della politica. Come propone Arafat. Il vecchio Fedayn distingue fra Hamas militante (terrorizzante anche per lui) e Hamas politico, ed è con quest'ultimo ch'egli si ritiene (ancora) in grado di regolare la partita, politicamente appunto. Se la cosiddetta Autorità palestinese è stremata e turbata da un dibattito intemo senza precedenti nella lunga storia del movimento di liberazione della Palestina, anche Hamas è in debito d'ossigeno. La prospettiva di immolarsi in una Gaza-Stalingrado battuta casa per casa dai commandos di Tsahal, truppe di ineguagliabile livello tecnico, ideologicamente motivate, non è che arrida poi tanto all'ala civile di Hamas. Quella leadership proclama di avere in dispregio la vita. Ma dimentica di precisare: la vita altrui, non la propria. E Arafat che conosce bene i suoi polli è sul «tema» della sopravvivenza fisica che intende puntare, trattando con quelli di Hamas. A dar retta ai suoi più stretti collaboratori, Arafat considera la road map l'ultima chance, l'estrema Thule. Se fallisse, i palestinesi farebbero la fine dei passeggeri del Titanio. In quanto a Bush, egli vuol risolvere il problema-Iraq, su cui ha giuocato tutto, in primo luogo la sua rielezione, sicché teme che lo sfratto ad Arafat anziché risolvere, peggiori la crisi mediorientale. Tutto si tiene: Iraq, road map, terrorismo. Chi scrive pensa che lo sfratto ad Arafat sia soltanto rinviato. Non crede che provocherebbe nel mondo arabo-islamico una immensa intifada. Questo no, ma una insidiosa febbricola, con nefasti, improvvisi sbalzi di temperatura, una sorta di inarrestabile consunzione lentissima, lo sfratto o, peggio, l'uccisione di Arafat, la provocherà senz'altro. Costringendo l'Occidente tutto nella gabbia dell'insicurezza, dell'eterna paura del peggio.

Luoghi citati: Iraq, Israele, Medio Oriente, Palestina, Stati Uniti