«L'inferno nello stadio di Pinochet» di Maurizio Tropeano

«L'inferno nello stadio di Pinochet» «L'inferno nello stadio di Pinochet» Parla il torinese arrestato e torturato 30 anni fa in Cile la storia Maurizio Tropeano PINOCHET ha cercato anche di portarlo in Tribunale. Il diario di quei quindici giorni trascorsi sugli spalti dell'Estadio National di Santiago del Cile sono diventati una memoria per cercare di far processare da un tribunale italiano il generale responsabile del golpe contro Salvador Mende avvenuto TU settembre del 1973. «Pinochet era stato arrestato a Loncte;Bu;miàfldato di cattura del giudice Gàrzofi; Ho' éredùtó' fbssé ' po^ibilé ihcastirarlo. Ma la pratica era lunga e complessa». Così Marino Lizzul Coppe quel diario forse lo farà leggere al piccolo di 21 mesi che si cima tra le braccia. Adesso ha 61 anni, lavora per i servizi sociali del Comune. Ne aveva trentuno quando il 27 settembre del 1973 varcò i cancèlli dello stadio: «Non so se avrò la forza di raccontargli quei giorni di persona. Ci sono libri e foto che la ricostruiscono e che parlano anche di me. Li leggerà». Quindici giorni d'inferno una parte dei quali passati con Paolo Hutter. Gli unici due italiani detenuti dai militari golpisti. Lizzul, figlio di profughi istriani espatriati in Perù arriva in Cile nel 1971, un anno dopo la vittoria del socialista Allende: «Ero curioso di conoscere di persona quel.paese che aveva scelto liberamente di essere governato dalla sinistra. Mi hanno accolto eoa bene die sono rimasto lì». Lavora come fotografo e in una piccola casa editrice. Il giorno del golpe è in casa, lontana in linea d'aria mezzo chilometro dal palazzo della Moneda, la sede della presidenza della Repubbhca: «Vedevo gli aerei che scendevano in picchiata per bombardare il palazzo». Sono giorni caotici. Gli stranieri cercano rifugio nelle ambasciate. Lizzul no anche se per precauzione chiede ospitalità in una chiesa. Tutti i giorni telefona all'addetto commerciale dell'ambasciata italiana: «Gli parlavo in dialetto. Siamo rimasti d'accordo che se non lo chiamavo per un giorno mi sarebbe venuto a cercare». I carabineros lo fermano mentre tenta di portar via di nascosto le macchine fotografiche e i libri. Inizia l'inferno. Cercano armi, ma è solo una scusa. Lo gettano per terra e iniziano a picchiarlo. Prima calci e pugni, poi il calciò dei fucili. Lo trascinano in 1 strada. Lo caricano sii uh fintone. E' pieno di persone. Li scaricano davanti ad un commissariato. li ammassano dentro una stanza. Ricorda; «C'erano uomini e donne ridotti in fin di vita a forza di bastonate. Poi entrò un ufficiale: "adesso vi portiamo alla fucilazione». Li caricano sopra altri furgoni. «Ci hanno fatto pregare, recitale il Padre Nostro. Ci insultavano». Scendono dai furgoni. Davanti a loro non c'è il plotone d'esecuzione ma si aprono le porte dello stadio. La bolgia infernale dove saranno rinchiuse settemila persone. Lui finisce sugli spalti. «Stavo male e mi lamentavo. Arriva una giovane crocerossina che mi ascolta. Gli racconto che sono italiano. Leiprométte che avvertirà l'ambasciata e che mi farà avere delle medicine». Invece «arrivano due militari. Un ufficiale mi dà una pistola. Mi ordina di spararmi. Poi cambia idea e mi fa legare ad un palo». Il primo interrogatorio arriva il 5 ottobre. «Ci hanno scelti a caso e fatti incamminare verso il velodromo. Ci hanno fatto mettere la coperta in testa. Ci picchiano prima di iniziare l'interrogatorio». Il giorno dopo la scena si ripete ma «adesso sanno che sono italiano», dunque «un provocatore al soldo del comunismo intemazionale». Così «mi fanno spogliare e mi mettono sopra un cavalletto. Sono in mano dei carabineros. Qualcuno collega dei fili ai genitali. Partono le scosse elettriche». Ricorda ancora: «Mi chiedono se conosco Sofia Loren. Rispondo di no e allora arriva una scarica più forte». Per fortuna qualcuno gli ha fatto conoscere Paolo Hutter. L'allora studente torinese esce dallo stadio il 6 di ottobre. Arriva in ambasciata e informa l'addetto commerciale, Roberto Toscano che dentro lo stadio c'è un altro italiano. La diplomazia entra in azione. Dentro lo stadio, intanto, Lizzul subisce un terzo interrogatorio. Stesse tecniche e stesse domande. «Alla fine un militare mi mette davanti un foglio. Mi fanno scrivere che sono stato trattato con umanità. Dobbiamo darlo all'Orni, mi dicono. Io firmo». Firma la sua libertà. Il 12 ottobre esce dallo stadio. Lo portano all'ambasciata. Poi il volo verso l'Italia e infine Torino, ospite dell'amico Paolo. Diventa un testimone. Gira l'Italia. Racconta la sua storia nei salotti buoni della sinistra e in tante assemblee di base. Recupera foto e documenti anche se «col tempo la gente, molti anche di sinistra, preferiscono non ricordare e farsi travolgere dall'attualità». fjji^L Ho visto gente W" in fin di vita per le bastonate Un ufficiale mi diede la pistola e disse: sparati Poi ci ripensò e mi legò a un palo Botte, umiliazioni e quindici giorni dopo la libertà 99 Lo stadio di Santiago del Cile dopo il golpe militare del generale Plnochetdell'H settembre 1973: tra i prigionieri c'era anche II torinese Marino Lizzul Coppe (sopra, in una foto scattata all'epoca del suo rientro in Italia)

Persone citate: Allende, Marino Lizzul Coppe, Paolo Hutter, Pinochet, Roberto Toscano, Sofia Loren