Laurie ANDERSON Il mio 11 settembre

Laurie ANDERSON Il mio 11 settembre Laurie ANDERSON Il mio 11 settembre ANTEPRIMA Laurie Anderson primi cinque minuti del giorno sono sempre i peggio; ri. Quando i sogni più caotici e agitati cominciano a svanire, arriva la nauseante colpevolezza che è tutto davvero accaduto. Poi tornano le vivide immagini riprese dall'alto di uomini e donne coi vestiti in fiamme, dei pavimenti che crollano poi del salto nel vuoto, mano nella mano, giù nell'azzurro del mattino. Avevano gli occhi rivolti al cielo? O agli edifici di fronte? Cosa deve aver significato afferrare la mano di qualcuno - di qualcuno con cui difficilmente avresti pensato di condividere un momento simile - e saltare giù oltre il limite? Poi arriva tutta la parata delle «riflessioni» ma sono più surrogati di pensiero che pensieri reali. Veloci, sbrigativi e implacabili. E' il momento di andarsene, dice qualcuno. La città cade a pezzi. Male, male, molto male, dice un altro. Il caos. I gas venefici. L'odio imperscrutabile. Stupido e insensato. Ogni cosa perde un senso. Poi inizio illungo processo di parlare a me stessa, di ragionare, di cercare un modo per comprendere tutto questo. Fuori della finestra del mio studio a Canal Street un carro attrezzi si muove verso Nord trasportando le lamiere contorte di un cambio di pompieri. L'aria è acre. La gente applaude. Un'altra triste giomata di settembre. Alla radio dicono: «Gente, non lo sentite? C'è amore dappertutto». Mandano questa canzone due volte di seguito. Poi sento la mia voce... non mandano mai le mie canzoni per radio ma eccone una in cui dico: «Il Paradiso è esattamente il luogo in cui ti trovi adesso, anche se è molto, molto meglio»: è una voce dal passato che entra nell'infinito dialogo cominciato quel mattino dell'il. Eravamo in tour a Qhicago. Mi trovavo nell'atrio di un albergo quando un corriere postale è entrato di corsa urlando: «New York è stata bombardata. New York è stata distrutta». E avanti così per cinque minuti prima che riuscissi a trovare un televisore. Chicago era in un panico ordinato. L'orjanizzatore dello spettacolo ci la chiamato a mezzogiorno per dirci: «Naturalmente se cancellate vi capisco perfettamente: ma volete davvero fare lo spettacolo stasera?». Ho detto di sì e lui: «Va bene perché in molti stanno chiamando e arriveranno in massa. D'altra parte, - ha detto - credo che l'arte debba servire proprio a questo». Non ho registrato appieno quell'idea prima di trovarmi quella stessa sera davanti alle facce delle persone che erano riuscite ad arrivare al concerto. Teoricamente ho sempre pensato che la musica stia tutta in ciò che provoca negli ascoltatori. E' solo questo che conta. Ma non avevo mai visto prima tante persone riflettere assieme, e tanti pensieri attraversare i loro volti, riempire la sala in maniera così disarmante da risultare persino struggente. Decisi di rispettare tutte le tappe del tour così ci spostammo rapidamente da Toronto a Boston, da D.C. a Philadelphia. In una successione di meravigliose giornate autunnali. Ogni città sembrava più bella di quella appena lasciata, coi suoi edifici luccicanti, i vasti parchi e la sua operosità. Siamo tornati a New York di notte, in autobus venendo da Ovest. Una grossa nuvola bianca incandescente copriva il mio quartiere. Sono corsa sul tetto dove c'era ancora Un lacero brandello di bandiera votiva tibetana che reca su di sé ima preghiera: l'avevo ammainata lo scorso anno per farla battere nel vento fino a ridursi a brandelli. Il mio angolo di strada era illuminato da enormi fari e una fila di camion erano allineati sulla via principale. Sulla strada di fronte c'è un molo che stava per diventare un rifugio per gli uccelli, o forse per un unico uccello solitario. Adesso scoppia di luce. L'intento è quello di farci crescere il muschio nella speranza che più .uccelli si diano convegno lì. Óra ogni notte arrivo a piedi su quel cumulo di macerie che un tempo era il World Trade Center. Sulla strada del ritomo la notte scorsa ho udito di nuovo il grido dei beccaccini. Sono arrivati in quartiere poche settimane fa e hanno l'aria di essersi sistemati, schiamazzando a piena voce sull'Hudson. Li ascolto per un po', felice che siano tornati, ma poi penso al resoconto che un mio amico ha dato del crollo delle Torri e degli uccelli in fiamme. Cammino verso Sud, su Greenwich Street e provo a immaginare l'aereo che ha sorvolato quella strada come un uomo in fuga. Nel 1972 vivevo più a Sud, già a Murray Street e ho visto il Wtc crescere, sbarrando gradualmente la mia vista sul cielo. Le Torri sono cresciute in fretta e, mentre diventavano più alte, i colpi diventavano più flebili, fino quasi a scomparire. Ciò che amavo delle Torri gemelle era il fatto che fossero due: due copie esatte. Diversamente da ogni altra icona. E' difficile immaginare due torri Eiffel, due Big Ben cresciuti fianco a fianco. Allora, qual era l'idea che stava dietro la loro costruzione? Forse il fatto che fosse possibile fare due copie perfette? E, a volontà, continuare a fame di simili all'infinito? Il minimalismo in scultura era l'arte dominante in quel periodo e il mio pezzo preferito era Box with the sound of its own making di Robert Morris: un grosso cubo con registrazione incorporata dei suoni prodotti dalla sua costruzione. Vedere la crescita imponente e quasi automatica del Wtc è stato come vedere un monolite inventare sé stesso. E quando alla fine fu completato, mi ha sempre ricordato un grosso diapason. Non l'ho sentito o visto crollare, tranne in tv. «Un presagio è solo questione di esperienza» è stato il mio motto personale di quest'anno. Non esattamente un motto, piuttosto un presentimento. Mi sono resa conto di essere sempre vagamente delusa delle cose e allora mi sono chiesta il perché. La risposta è che stavo solo vivendo quello che mi aspettavo di vivere senza lasciare che qualcosa di veramente nuovo potesse davvero accadermi. Ora è come se un vento enorme si fosse abbattuto su tutta la città e, con le vite che ha portato con sé e il dolore che ha prodotto, ha anche spazzato via un sacco di cose che non avevano più importanza. Negli ultimi anni mi sono sentita sempre più disillusa verso ciò che accadeva o non accadeva negli ambienti che frequento: il mondo musicale si era riempito di macchine efficienti e di egocentrici fotogenici. Il mondo dell'arte era troppo occupato a parlare da solo. Mi pareva che gran parte di quanto stesse avvenendo avesse solo a che fare col denaro e con l'ambizione. Ok, ovviamente, esiste sempre qualche eccezione! Ma avevo attribuito la mia reazione al fatto di aver raggiunto un punto di fusione e al non essere più così interessata a gran parte di quello che passa per cultura. D'altronde, perché condannare gli altri per non aver fatto cose diversamente da come pensavo andassero fatte? Una volta, circa dieci anni fa, mi lamentavo con la mia agente della fine di ogni avanguardia e del fatto che fosse tutto così terribilmente noioso e sconta- to. E lei mi disse: «E allora perché non vai a sederti a un caffè e ne cominci un'altra?». Girando la domenica per Union Square, sono troppo in ritardo per raggiungere i miei amici all'happening che hanno organizzato, e invece, eccoli ancora là: una lunga fila di persone vestite a lutto, con le facce coperte di maschere di polvere a reggere cartelli orlati di nero: «Il nostro dolore non è un grido di guerra». Accanto a loro ci sono tibetani che cantano. E il mercato all'aperto con le sue pile di frutta, verdura e i secchi pieni di fiori. Altre due band stanno suonando. Da Nino su Canal Street ci sono messaggi affissi ai pannelli in varie lingue. Io scrivo l'unica cosa che mi stia aiutando in questi giorni: le parole del Dalai Lama che ha detto che i tuoi peggiori nemici sono i tuoi migliori amici perché ti insegnano delle cose. E cosa mi stanno insegnando? Be', molte cose. Un dolore enorme, il senso di responsabilità, quanto sia preziosa la vita. E ogni volta che penso a questa domanda, la lista delle risposte si allunga: la consapevolezza di quello che vuol dire essere una vittima. Il peso e il privilegio di poterlo testimoniare. La sensazione nuova di essere uniti agli altri. La possibilità di riflettere sull'opportunità o meno della risposta armata. La possibilità di capire ciò che davvero pensano i miei amici e quello che davvero li spaventa o li fa sperare. Quel pomeriggio sono andata agli Avatar Studios per partecipare a un progetto di Nile Rogers. Un gruppo multicolore di gente - dive pop, qualche vigile del fuoco, artisti - e un centinaio di persone si sono radunate lì e hanno cominciato ad alzarsi in piedi e a ballare mentre noi cantavamo: «La famiglia siamo noi. Fratelli e sorelle. Tutti insieme». Continuando così senza fermarci. Con Spike Lee che girava e Nile Rogers che dirigeva il gruppo. Proprio dietro di me c'era il cantante pakistano Rabat Nusrat Fateh che assieme ad Ali Khan, faceva variazioni qawwali da far rizzare i capelli. Non so se fossero parole vere ma di colpo il coro gospel si è girato a guardare da dove venisse questo suono alieno. E' stato uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito. Adesso vado moltissimo in giro, e mi viene la claustrofobia a restare in casa. Vedo molta gente che cammina da sola, persa nei suoi pensieri. Per la prima volta ho come la sensazione che stiamo vivendo nello stesso spazio mentale, i come se stessimo tutti cercando di capire cosa farcene di tutti questi fatti ed emozioni radicalmente nuovi. Mi fermo alla stazione di benzina, al ristorante di quartiere, al bar dietro l'angolo. Mi metto davvero a discutere. No, niente sarà più come prima. Il cumulo di macerie è ancora alto. E' impossibile da capire la sua vastità se non vai a guardarlo di persona. Osservo i vigili del fuoco che si arrampicano su quel cumulo: indossano impermeabili neri con strisce gialle e si agitano in superficie come api. E adesso, della serie non-farmi-parlare-se-già-la-sai: dite ai talebani di consegnarci Osama bin Laden, altrimenti andiamo a prendere tutte le loro donne e le deportiamo nei college. Sono appena reduce da un altro giro. La nuvola di luce bianca è ancora lì. I camerieri del ristorante all'angolo sono in piedi davanti alle transenne con in mano il menù. «Sì, siamo aperti!» c'è scritto sopra. E noi entriamo al Salaam Bombay a farci una cena straordinaria. (trad. di Daniela Daniele) Il caos. I gas venefici L'odio imperscrutabile Stupido e insensato Ogni cosa perde un senso Poi inizio il lungo processo di parlare a me stessa, di cercare un modo per comprendere tutto questo Siamo tornati a New York di notte, in autobus venendo da Ovest Una grossa nuvola copriva il mio quartiere. Sono corsa sul tetto dove c'era ancora un lacero brandello di bandiera votiva tibetana Laurie Anderson (qui a sinistra), quell'11 settembre si trovava in tour a Chicago (dove è nata nel 1947), quando si levò un urlo: «New York è stata distrutta»

Luoghi citati: Ali Khan, Boston, Chicago, New York, Rabat