L#Europa? È un campo di calcio di Mario Baudino

L#Europa? È un campo di calcio «FESTIVALETTERATURA» DI MANTOVA: A CONFRONTO SULLA CULTURA CHE LEGA I PAESI DELL'UNIONE L#Europa? È un campo di calcio L'identità comune secondo Esterhàzy, Rykwert e QConnor Mario Baudino inviato a MANTOVA ,.C I, mi sento perdutamente ^CJ europeo. Tutta la mia vita di relazione lo è, dalla cultura al modo di consumare. Però non riesco ad avere immagini politiche, e neppure forse idee precise al riguardo». L'Europa è una sensazione, un sentimento? «Se devo essere sincero, per Europa intendo libri, musica, cultura appunto. E poi il gioco del calcio». La risposta di Peter Esterhàzy, che da un lato appartiene ad una delle più antiche famiglie nobiHari ungheresi, la cui storia secolare ha rievocato nel recente Harmonia caelestis (Feltrinelli), e dall'altro ha un fratello calciatore che è stato un indiscusso campione, ha il pregio di essere spiritosa e non ambigua. Scrittori in testa, ormai tutti ci sentiamo europei, chi più chi meno «perdutamente», ma non è così facile trovare un accordo sul senso di questa affermazione. H festival di Mantova, per molti motivi - non ultimo i gemellaggi con le analoghe manifestazioni di Hay-on-Wie e Berlino - è per eccellenza uno spazio «europeo», uno dei luoghi dove l'elaborazione di quest'idea si fa più evidente, quasi palpabile, ma quando cerchi d'afferrarla sfuma, come un sorridente fantasma. Che cos'è l'europeo? Un grande storico dell'architettura come Joseph Rykwert, inglese di origine polacca che ha insegnato a lungo in America e ora vive a Venezia, offre una risposta per niente vaga; «C'è una differenza fondamentale tra noi e l'America, e sta nel modo di occupare il suolo. Il lusso degli americani sono i loro grandi spazi vuoti». Questo ha effetti importanti sul modo di vivere, che Rykwert ha studiato nel classico L'idea di città riedito da Adelphi e ora in La seduzione del nuovo, appena uscito per Einaudi. Per due millenni abbiamo «esportato» la pianta ortogonale, che non fu comunque un'invenzione romana. A partire dall'Ottocento l'America ha sviluppato le città in verticale, ha trasformate le nostre antiche torri in qualcosa di molto diverso. Da luogo che almeno in origine era pensato in armonia (potremmo dire: celeste) con l'universo, attraverso la disposizione dei due assi principali del centro abitato, la città è diventata ima metafora dello stato di cose, ha preso a modello il grafico, ovvero il tracciato che misura l'andamento di un fenomeno quantitativo. Questa è una bella differenza. Ragion per cui «facciamo male a imitare Manhattan, perché presuppone uno spazio tendenzialmente infinito, che da noi non c'è». Ma la imitiamo perché è la capitale del mondo, e finché sarà tale continueremo a farlo. Ma allora l'europeo è semplicemente qualcuno che sta perdendo la sua identità, anche se nonsaprebbe dire come? «C'è un motto nel Connemara, provincia dell'Irlanda affacciata sull'Atlantico, che dice: il prossimo villaggio è Boston. Eppure anche noi siamo, storicamente, molto europei» risponde Joseph O'Connor, che nel suo ultimo romanzo Stella del mare (Guanda) ha cantato il grande viaggio degli emigranti verso l'America, un viaggio che non metteva neppure in conto l'eventualità di un ritorno. «È indubbio che dall'Irlanda si guarda all'America, ma non c'è contraddizione in questo. Siamo europei perché non potrebbe essere altrimenti». E per lei cosa significa, in concreto? «Soprattutto cultura e pohtica. Ma anche memoria: per esempio noi irlandesi siamo emigrati a milioni e ora, bruscamente, cominciamo a diventare come tutti gli altri paesi europei terra d'immigrazione. Bene, sembra incredibHe ma in pochi anni quel nostro pur recente passato ha cominciato a svanire dalla memoria. H motivo del mio romanzo è spiegare come eravamo». Che anche, e forse soprattutto questo, sia Europa? Una difesa delpropriopassato^una rivendicazione della «storia»? Non come arroccamento, precisa O'Connor. «Io non rimpiango il dominio totale sulla società da parte della Chiesa cattohca, ragion per cui sono contrario ad esempio a inseri- re nella costituzione europea riferimenti alle comune radici cristiane. Ma certo la nuova Manda mi ricorda un po' la Londra della Thatcher: le chiese sono vuote, e la gente adora qualcos'altro...» Dall'altro capo della «nuova UE» gli fa eco Esterhàzy, che a sua volta non ha particolari rimpianti per il comunismo in cui è cresciuto e in cui non ha creduto, insiste, «nemmeno per un secondo». La promessa e il sogno erano l'America: «Noi l'abbiamo aspettata a lungo, rappresentava l'esatto contrario di ciò che vivevamo». E ora? «Ora è diverso. Perché incarna un modo di "usare" la cultura. Mi spiego: imo impara il greco non per arricchirsi umanamente, ma solo se gli serve. La mia idea di Europa è esattamente l'opposto». È il consenso su certi valori, ad esempio. In caso contrario, conclude 2o scrittore, rimane soloJa lista dei bestseller. In cui però, gli ricordiamo, lui è ben presente, non solo in patria. Come la mettiamo? «La mettiamo così: meno male». «C'è una differenza tra noi e l'America e sta nel modo di occupare il suolo» Che cosa fa Guido Ceronetti (nella foto qui sopra) al «Palazzo della Ragione», nome peraltro piuttosto inquietante se declinato al modo del suo «Teatro dei sensibili»? S'illumina di tragico, portando un collage di testi che dalla Grecia ad oggi ripercorrono l'irruzione dello spaventevole nella «banalità sinistra della vita». Qui accanto un momento della kermesse mantovana. Sotto un'immagine della disegnatrice iraniana Marjane Satrapi

Persone citate: Guido Ceronetti, Joseph O'connor, Joseph Rykwert, Marjane Satrapi, Peter Esterhàzy, Rykwert, Thatcher