Tra italiani e francesi metti Casanova

Tra italiani e francesi metti Casanova PARLA DAVICO BONINO CHE LASCIA L'ISTITUTO DI CULTURA A PARIGI Tra italiani e francesi metti Casanova «In noi si aspettano sempre di trovare un po' dell'avventuriero della penna e dell'intelligenza, quell'estro e quel brio che i loro intellettuali "barbant" non hanno. L'ideale è Federico Zeri» Cesare Martinetti corrispondente da PARIGI ..TD ARBANT», noioso o addi■^JJ rittura barboso. Dice Guido Davico Bonino che ha sentito spesso pronunciare questa parola, in due anni di Parigi. Barbant, detto da francesi e riferito ai francesi. Sottovoce. E di noi italiani? «Ci riconoscono e invidiano un di più di sregolatezza che loro non hanno, prigionieri di un ordine mentale cartesiano, geometrico, dell'esercizio attivo ma freddo della ragione. Negli italiani, i francesi si aspettano sempre di trovare un po' di Casanova, non nel senso del rubacuori, ma dell'avventuriero della penna e dell'intelligenza, l'uomo che alla fine della sua vita ha riassunto il senso del secolo». Esattamente due anni dopo essere entrato all'Hotel de Galhffet come direttore dell'Istituto itahano di cultura di Parigi, Davico Bonino lascia di sua spontanea volontà (e alla fine di questa conversazione ci spiegherà perché), a metà dell'incarico. In un libretto blu (sobriamente intitolato Due anni di lavoro) c'è il suo rendiconto culturale: 300 manifestazioni, dibattiti, incontri, mostre, piccole rappresentazioni, concerti a cui hanno assistito mighaia di parigini e che si sono svolti in questo magnifico Hotel di rue de Varenne che fu ufficio e residenza del principe di Talleyrand e che si trova proprio di fronte all'ambasciata itahana, da cui l'Istituto dipende. Altre 57 manifestazioni già organizzate fino a dicembre è l'eredità che il direttore lascia al suo successore, Htegista Giorgio Ferrara. Davico Bonino ha un suo modo tutto torinese, pavesiano o einaudiano (in casa editrice ha passato vent'anni) di «non fare pettegolezzi» e quindi non lo direbbe mai. Ma è chiaro che quel libretto blu è ima specie di sfida: ecco quello che ho fatto io, adesso tocca a voi... Dunque niente «pettegolezzi», ma almeno qualche considerazione su questa storia infinita del litigioso e controverso amore tra francesi e italiani, due culture che tra Cartesio e Casanova - sembrano fatte apposta per dialogare e persino compenetrarsi, ma anche per combattersi e finalmente separarsi, a seconda della stagione. Due mondi perennemente sull'orlo di una crisi di nervi, com'è accaduto, per esempio, al Salone parigino del libro del 2002. Professore, lei dunque ci vuol dire che come sempre i francesi cercano negli italiani la faccia più allegra o addirittura buffonesca? «No, però alla fine di ogni incontro o dibattito l'aspetto che sottolineavano di più negli italiani era sempre quell'estro, quel brio che i loro intellettuali "barbant" non hanno. L'intellettuale ideale per i francesi era Federico Zeri: storico di livello indiscutibile, grande attribuzionista, ma estroso e provocatore, I francesi amano il paradosso e il nostro gusto dell'autoironia». L'Italia è tuttora una grande passione francese? «Non c'è dubbio. In un certo senso siamo tornati al '700 quando gli intellettuali, con i soldi di papà, facevano il Gran Tour dell'Europa e l'Italia era la meta preferita. Prenda i corsi di italiano: gli studenti aumentano, non solo nel nostro Istituto, E appena il 20 per cento lo fa per un'esigenza pratica. Per gli altri è piacere e curiosità di tutto ciò che fanno gli italiani». Ma al di là di questo aspetto sentimentale, a che punto è lo stato del dialogo tra le due culture? «La mia impressione è che si potrebbe fare molto di più per innescare l'acculturazione tra due mondi che si incontrano e si correggono. I due governi hanno avuto un riavvicinamento e ora si può dire che c'è un dialogo più fitto, in particolare sulla cultura: Giuliano Urbani e Jean-Jacques Aillagon hanno simpatizzato davvero, al di là delle apparenze formali. Però gli accordi tra ministri sono importanti se poi c'è un "suivi", come dicono i francesi, e cioè se si concretizzano gli intenti ministeriali». E questo non si fa? Gli accordi tra ministri restano soltanto belle parole? «Io credo che bisognerebbe creare una struttura operativa permanente che lavori nella concretezza del vissuto culturale. Bisognerebbe inventare un grande consulente ombra per far conoscere ai francesi che cosa produce l'Italia, Si tratta di un'opera paziente, il lavoro del ragno, quasi un apostolato laico di divulgazione della cultura italiana in Francia. I francesi hanno una struttura che si chiama Afaa, Association frangaise aour l'action artistique. È il Draccio culturale del ministero degli Esteri, ha a disposizione 15 milioni di euro l'anno, aiuta, diffonde, collabora a 2 mila manifestazioni». Ciò significa che tutto quello che di italiano viene conosciuto in Francia, arriv» per forza propria? «O per caso o per iniziativa francese. Per esempio quest'anno l'Opera Bastille ha commissionato a un musicista francese. Pascal Duzapin, la messa in musica del Codice di Perelà di Palazzeschi, che è andato in scena nel testo originale, in italiano. Mi hanno invitato a presentarlo e mi sono reso conto che in quell'immenso auditorium, stracolmo, nessuno aveva la minima idea di chi fosse Palazzeschi, Ho subito organizzato una serata all'Istituto», Ma per quanto riguarda la musica, l'impressione è che le cose vadano bene. «Certo, non dimentichiamo che l'italiano è lingua internazionale grazie al melodramma. Ogni stagione dell'Opera o dell'Opera Bastille ha nuove messe in scena di opere italiane cantate in itahano. Non solo, a marzo, alla Cité de la Musique de la Villette si terranno due settimane dedicate a Luciano Berlo: nemmeno in Italia si è mai fatto tanto. A gennaio, al teatro Mogador, verrà data in prima mondiale l'ultima composizione sinfonica di Berio, Stanze. Ivan Fedele, un altro importante compositore contemporaneo, avrà anche lui il suo spszio alla Villette. A marzo l'Orchestre de Paris diretta da Christoph Eschenbach terrà un concerto per festeggiare i 90 anni di Carlo Maria Giulini alla presenza del maestro, E poi non dimentichiamo che la cattedra di composizione del Conservatorio nazionale di Parigi è tenuta da un giovane italiano. Marco Stroppa», E il teatro? «C'è la coraggiosa inizitiva di Maurizio Scaparro e del suo Théatre des Italiens che da settembre a dicembre farà la sua stagione, con trenta spettacoli, È l'iniziativa di un hidalgo, gli siamo riconoscenti, ma non basta. Alla Villette, a settembre, Giorgio Barberio Corsetti porterà le Metamorfosi di Ovidio; in primavera il Rond-Point dedicherà un festival, meritatissimo, al difficile teatro di Pippo Delbono, Ma si tratta di iniziative sporadiche. Ecco, io credo che nelle grandi capitali europee dovrebbe esistere un ufficio di rappresentanza che faccia la paziente opera di segnalazione di quanto si produce in Italia». In questi due anni gli Istitu¬ ti di cultura sono stati spesso bersagho di polemiche da parte del governo, lo stesso presidente Berlusconi disse che si occupavano troppo di Manzoni e troppo poco di rappresentare l'Italia che lavora. Come risponde a quelle critiche? «Io credo che sia giusto, come si usa dire, mescolare alto e basso. Per esempio noi abbiamo fatto un ciclo di tre serate dedicate alla moda: c'erano gli stilisti, i produttori e alla fine è venuto anche un grande intellettuale come Daniel Roche, del Collège de France, autore di una storia della moda pubblicata da Einaudi. L'incontro è andato benissimo, gli stessi operatori italiani ascoltando Roche l'hanno riconosciuto come uno di loro e lui ha tenuto una magnifica lezione sulla cultura delle apparenze». Però gli istituti sono stati accusati di non saper vendere il prodotto Italia all'estero. È vero? «Se si pensa di trasfonnare gli istituti in duplicati chic delle Camere di commercio, si sbaglia. Se invece si pensa che gli istituti possano esercitare una riflessione sulle culture produttive, allora siamo d'accordo, è il loro compito. Per dirlo con una battuta, gli istituti devono occuparsi dell'ottica, non degli occhiali, delle idee che hanno preceduto il manufatto, non del manufatto». Professor Davico Bonino, da settembre lei torna alla sua cattedra di Storia del teatro all'Università di Torino e al Centro studi alfieriani di cui è appena stato nominato presidente. Perché lascia l'Istituto di Parigi? «Le rispondo con tre versi di Ungaretti: "Il mio supplizio Z è quando non mi sento Z in armonia.,,"». «È giusto mescolare alto e basso. Ma se si pensa di trasformare gli istituti in duplicati chic delle Camere di commercio, si sbaglia. Perché me ne vado in anticipo? Rispondo con i versi di Ungaretti: il mio supplizio è quando non mi sento in armonia» Un momento del Don Giovanni diretto da Maurizio Scaparro e prodotto dal Teatro di Roma con il Théatre des Itallens, chea Parigi è stato lo spettacolo dell'anno nella scorsa stagione. Dal prossimo settembre a dicembre ilThéàtre desltaliens proporrà altri 30 titoli. Nella foto in alto Guido Davico Bonino