PEPPINO cent'anni d'ingratitudine di Osvaldo Guerrieri

PEPPINO cent'anni d'ingratitudine L'ULTIMO DEI FRATELLI DE FILIPPO: NASCEVA IL 24 AGOSTO 1903, È STATO UN GENIO DELLA COMICITÀ, MA L'ITALIA NON SA RICORDARLO PEPPINO cent'anni d'ingratitudine Osvaldo Guerrieri N" ON fosse per la Tv che, specie nei periodi di stanca, ricicla a caso qualcuno dei suoi film, sarebbe difficile conservare il ritratto vivo di Peppino De Filippo, E invece, smanettando da un canale all'altro, eccolo riaffiorare dal buio: perfido, furbastro, imbroglione, tiraschiaffi; eccolo con i suoi baffetti stizziti e lo scatto spiritato degli occhi mentre ci invade con quei suoi personaggi frustrati, tempestati di tic, magari ipocriti, magari spocchiosi e vili, che costringevano Indro Montanelli a dire: «Io non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo». Il 24 agosto saranno cent'anni dalla nascita di questo attore che sembrava venire da lontano, dalle atellane e dalla Commedia dell'Arte, Non sappiamo se il Teatro e il Cinema lo ricorderanno come merita, se la sua comicità fragorosa e terremotata stimolerà una ripresa degli studi sulla sua complessa fisionomia di attore, di commediografo, di narratore, di poeta, di musicista, di illustratore, di vignettista che, come Sergio Tofano, pubblicava nel 1940 sul periodico per famigUe Mammina tavole e versi il cui protagonista si chiamava Giulippo (crasi di Giuseppe De Filippo). Non sappiamo neppure se Mondadori ristamperà gh sketch di Pappagone, la maschera che Peppino creò nel 1966 per il programma Tv Scala reale. E' stata la sua ultima buffoneria ingigantita a dismisura dai mass-media, è stato l'ultimo lampo di una popolarità che, dagli anni Trenta al momento della morte (26 gennaio 1980) non ha avuto né cedimenti né eclissi: la maschera candida del mamo, l'idiota puro con un ciuffetto di capelli che si impennava a gancio al sommo del parrucchino color carota, lo strafalcionista che, nel mezzo del discorso stralunato, buttava il suo famosissimo intercalare «ecque qua!». Quante cose non sappiamo. Forse perché Peppino, nonostante la riconosciuta genialità istrionica, continua ad essere considerato un «comico», una presenza minore, l'ombra perfida di Eduardo, lo Zanni flemmatico e cialtrone che un giorno fece dire al produttore Angelo Rizzoli «Ecco questa bella faccia di cretino!», Raidue ha celebrato il centenario trasmettendo a notte fonda (il 16 di agosto) le farse Miseria bella e Cupido scherza e spazza. Nello scorso marzo, a Napoli, il Comitato nazionale delle celebrazioni ha organizzato con l'Università un mastodontico convegno su «Peppino De Filippo e la comicità del Novecento», ma l'eco di quelle discussioni non è riuscita a superare la cinta municipale. Progetti di spettacoli sono stati annunciati dal Teatro stabile di Napoli, ma poi i programmi sono cambiati. Sarebbe interessante scoprire il motivo di tanta evasività. Qualcuno la spiega così: poiché è il solo custode e amministratore del patrimonio paterno, Luigi De Fihppo vuole avere voce su tutto ciò che si progetta: senza il suo benestare, non si fa niente. E' davvero così? E, anche fosse, sarebbe sufficiente a spiegare l'approssimazione e la malavoglia che circondano il centennale? Disse una volta Peppino: «Ormai mi sono rassegnato. Un discorso serio su di me autore sarà fatto soltanto dopo che io non ci sarò più». Era il 1978, Venticinque anni dopo, siamo ancora in attesa del discorso serio. Venticinque anni dopo, Peppino è costretto a fare quel che ha sempre fatto: combattere. Cominciò dalla nascita. Era l'ultimo dei tre figli che Eduardo Scarpetta ebbe da Luisa De Fihppo, nipote della moglie legittima, Titina (la maggiore), Eduardo e Peppino chiamavano il loro padre «zio», un po' perché lui non li riconobbe mai, un po' perché era zio per davvero. Una «famigha brutta, tarata, moralmente scassata in modo irreparabile», ricordò Pappino nell'autobiografia, una famigha dominata da quello zio che arrivava ogni tanto in casa e si comportava da padrone. Scarpetta sarà pure stato «un incallito e impenitente sporcaccione», ma fu anche il primo maestro dei ragazzi, Peppino aveva soltanto cinque anni quando fu buttato sul palcoscenico per interpretare il personaggio ài Peppinello in Miseria e nobiltà. Fu l'inizio di un lavoro che non si fermò mai e vide i tre fratelli impegnarsi in ordine sparso, prima di riunirsi in una «ditta» che fece epoca. Erano i tempi del Kursaal e del Sannazzaro (1931), Il trio costituì la mitica Compagnia del Teatro Umoristico che s'impose a Napoli e, da lì, ai pubbhci di Roma, di Milano, di Torino, Nacque allora la leggenda della loro inseparabilità e anche quando Peppino, nel '45, si mise per conto proprio con una sua compagnia, durò a lungo il rammarico di chi avrebbe voluto vederli sempre insieme, a dar vita a quei loro spettacoli scatenati tra lingua e dialetto, in un repertorio che alternava le commedie di Eduardo a quelle di Peppino e di Titina e mescolava, in cartelloni bizzarri, Pirandello, Armando Cur- ciò. Emesto Grassi. Divenne subito memorabile Peppino nel Berretto a sonagli, nel ruolo del delegato Spanò, così spocchioso e servile. Ma se Titina era abbastanza simile per temperamento a Eduardo e a Eduardo, pur tra litigi e separazioni, tornò sempre, Peppino aveva bisogno di uno spazio tutto suo. La recitazione di Eduardo era lenta, friabile, corrosa dalla malinconia; quella di Peppino, schietta, corposa, veloce, richiamava un passato di lazzi, la Commedia dell'Arte, il San Carlino, Senza questa memoria inconscia e potente, Peppino non avrebbe potuto operare certe mimesi clamorose, non avrebbe potuto trasfonnarsi, per esempio, nel neonato con baffi e cuffietta delle Metamorfosi di un suonatore ambulante, un canovaccio di quat- tro secoli prima da lui recuperato e riadattato, mostrando quanto fosse arcaica la sua comicità, come essa nascesse dal ventre, da una sofferenza e da un'allegria perdute, dal sentimento di plebi affamate e scomparse, ma il cui segno umile e nero durava nel paesaggio, nella storia. Aveva molte ambizioni Peppino, Scriveva e versificava. Tra rifacimenti e copioni originah è stato autore di una cinquantina di commedie, magari non tutte grandissime, ma segnate da un livello artigianale rigoroso: iVon è vero ma ci credo. Quelle giornate. Don Rafele 'o trumbone. Quaranta ma non li dimostra. In queste opere contava soprattutto il suo gioco d'attore. Lo sapeva così bene, che faceva coincidere il carattere dei personaggi inventati con le sue naturah tendenze istrioniche, E così, quando poteva, ci metteva dentro quei suoi tipi un po' loschi, i grandi scrocconi, i furbastri ghiotti. Apriva, in altre parole, una larga zona espressiva di ipocrisia e di maniacahtà che indusse Federico Fellini ad affidare a lui quel personaggio tartufesco contrapposto alla carnalità peccaminosa di Anita Ekberg nel primo episodio di Boccaccio '70. Fellini mise una specie di sigillo sulla carriera cinematografica di Peppino, una carriera poco amata, accettata per necessità, tesa soltanto a far quattrini da riversare magari nell'attività teatrale, E tuttavia quel lavoro malamato fece crescere in modo esponenziale la sua popolarità; quei film con Totò, con Fabrizi, con Walter Chiari, girati in fretta e su sceneggiature approssimative, lo fecero arrivare là dove non sarebbe mai giunto con il suo teatro. Un po' come accadrà più tardi con la televisione, quando lui rifiutò il ruolo del presentatore e, ricordandosi di un antico personaggio della commedia di Armando Curdo I casi sono due (il cuoco Gaetano Esposito), lo reinventò e tirò fuori la tempestosa ottusità di Pappagone, Ecque qua! Non è stato soltanto un formidabile istrione Commediografo, poeta e narratore, ha creato tipi umani irresistibili Peppino De Filippo in «Miseria bella»

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