Un'industria sfiancata da tre guerre di Mimmo Candito

Un'industria sfiancata da tre guerre I GRANDI PROGETTI DI RILANCIO DELL'ESTRAZIONE E LA DIFFICILE REALTA' DI UN PAESE NEL CAOS Un'industria sfiancata da tre guerre La produzione di greggio dell'Iraq ridotta a un terzo retroscena Mimmo Candito ANCHE se il caos che domina l'Iraq sta rendendo difficile perfino rifornirsi di benzina in una terra che naviga dentro un'immensa palude d'idrocarburi, la storia dell'Iraq è legata al petrolio fin dalla sua stessa nascita come Stato, quando - sulle ceneri dell'impero Ottomano, nei primi Anni '20 - Londra decise di mettere assieme il «vilayat.» di Bassora con le province di Mosul e Kirkuk: ufficialmente per fame un regno da consegnare all'impaziente terzogenito dello sceicco della Mecca che aveva portato i cavalieri arabi a fianco dell'Inghilterra (Lawrence d'Arabia è una bella storia e un filinone da cineteca), ma in realtà per mettere sotto controllo i giacimenti di petrolio che, nelle vaste distese fra Tigri ed Eufrate, avevavano cominciato a rivelarsi come una risorsa strategica fondamentale. E nonostante che le armi di distruzione di massa siano state, e siano tuttora, sbandierate come la miccia dell'ultima guerra, pochi hanno dubitato che alla base di questo nuovo Great Game non ci fosse proprio il petrolio iracheno. Nelle statistiche ufficiali delle riserve petrolifere, l'Iraq è considerato secondo soltanto all'Arabia Saudita: 225 miliardi di barili per i sauditi, 113 miliardi di barili per gli iracheni; tuttavia, nell'autunno scorso un centro studi governativo di Washington aveva calcolato che quei numeri fanno riferimento soltanto alle «riserve conosciute», e che un'attenta analisi geologica del territorio della Mesopotamia lascia pensare che la graduatoria andrebbe piuttosto ribaltata, portando l'Iraq al primissimo posto con una riserva (prevedibile» di 332 miliardi di barili. Un autentico pozzo senza fondo. Di fronte a queste nuove cifre, e alla inaffidabilità ormai di un'Arabia Saudita sempre più coinvolta nelle trame di Al Qaeda, il controllo di questa fonte vitale per lo sviluppo di qualsiasi economia rientra sicuramente in ogni credibile scenario strategico. Tant'è che a fine marzo, mentre ancora la guerra contro Saddam era alle prime mosse, già era sbarcato in Iraq un forte contingente di tecnici della società petrolifera americana Halliburton, assai chiacchierata per essere stata favorita in una scelta compiuta senza gara d'appalto (l'altro ieri il New York Times ricordava quanto forti siano state le proteste sollevate, per quel privilegio, dai concorrenti della Halliburton e da alcuni membri del Congresso, e segnalava come dietro queste proteste ci fosse il sospetto d'un conflitto d'interesse perché il vicepresidente americano, Dick Cheney, era stato amministratore delegato della società). La canea d'imprese concorrenti che si sta scatenando sulle rovine delle stazioni di pompaggio e degli oleodotti nasce dai calcoli del Corps of Engineers, che ha valutato come la ricostruzione dell'industria petrolifera irachena comporterà investimenti iniziali superiori a 1 miliardo di dollari, e conti finali superiori ai 9 miliardi di dollari. La prospettiva d'una larga ricostruzione è spinta non tanto dai darmi diretti della guerra (che comunque ci sono stati, e molti pozzi sono finiti in fiamme), quanto dalla necessità di rimettere in funzione un apparato industriale che dieci anni di embargo avevano portato al limite dell'utilizzo, con attrezzature rugginose, obsolete, usurate dalla mancanza di pezzi di ricambio. Al tempo della prima Guerra del Golfo, quella tra Saddam e Khomeini, l'Iraq produceva petrolio per più di 3 milioni di barili al giorno. Lo sfascio di quegli otto anni di guerra aveva poi ridotto di quasi un terzo quella capacità estrattiva, e comunque la produzione non aveva ripr so i ritmi record dei primi Anni Ottanta nemmeno al tempo della Seconda guerra, quella di Schwarzkopf, quando il contingentamento dettato daU'Opec limitava l'estrazione dai pozzi iracheni. L'embargo imposto poi dall'Onu, chiudendo il mercato e controllando rigidamente le esportazioni, aveva portato la produzione ufficiale a poco più d'un milione di barili al giorno (cui però andava aggiunta una quota rilevante di contrabbando verso la Turchia, la Siria e la Giordania, con entrate per Saddam superiori ai 2 miliardi di dollari l'anno). Ed è questa - di poco più d'un milione di barili - la quota attuale che la Halliburton e le altre società vogliono ora far incrementare. Le proiezioni dicono che l'Iraq potrebbe ritrovare il tetto dei 3 milioni di barili giornalieri per la fine del 2005, e magari arrivare con nuovi forti investimenti al record di 6 milioni di barili prima del 2010, sostituendo così sul mercato il dominio attuale dell'Arabia Saudita. Ma la ripresa appare più lenta delle previsioni ch'erano state fatte all'inizio della guerra: lo stillicidio degli attacchi ai G.I. e il caos che gl'incidenti di Bassora ora testimoniano stanno ritardando i bandi per i nuovi contratti (uno, per 967 milioni di dollari, prevedeva la conclusione dei lavori per la fine di quest'anno, e i concorrenti della Halliburton denunciano che, per quella data, forse i lavori nemmeno saranno cominciati). Il piano americano di utilizzare il petrolio iracheno per far saltare il cartello dell'Opec appare quindi in forte crisi, e lo stesso progetto di introdurre un modello democratico in Iraq rischia di brutto, se per una ripresa del Paese non sarà possibile utilizzare i proventi della ricchezza petrolifera. Le pietrate.^ Bassora stanno bussando alla porta della Casa Bianca.

Persone citate: Dick Cheney, Halliburton, Khomeini, Lawrence D'arabia, Schwarzkopf