il NEOLIBERAL va alla guerra

il NEOLIBERAL va alla guerra LA SFIDA DEI NUOVI DEMOCRATICI: CONTRO BUSH CON UN MANIFESTO NON PACIFISTA PER BATTERE ILTERRORISMO il NEOLIBERAL va alla guerra Maurizio Mollnarl corrispondente da NEW YORK PER tentare di battere George W. Bush nelle elezioni del novembre 2004 il partito democratico dovrà rispondere a una domanda: cosa fare della guerra al terrorismo iniziata dall'America dopo aver subito gli attacchi dell'11 settembre 2001.1 nove candidati democratici in corsa per la nomination hanno pareri in merito assai diversi e questa confusione, secondo i sondaggi realizzati dal partito, è una delle ragioni per cui i repubblicani restano in saldo controllo del voto dei maschi anglosassoni bianchi,, senza i quali non si vince la Casa Bianca. A suggerire una piattaforma democratica per la lotta al terrorismo sono un pugno di intellettuali americani e analisti di politica estera che coniando l'autodefinizione di neoliberal si propongono di «prendere le redini della guerra di Bush senza ripetere gli errori di Bush», come riassume Ronald Asmus, studioso di rapporti transatlantici al «Council on Foreign Relations» di Washington. Se i neoconservatori Norman Podhorez, Paul Wolfowitz e Bill Kristol hanno aiutato Bush a porre le basi della guerra al terrorismo, i neoliberal si propongono di aiutare il successore democratico a vincerla. La genesi dei neoliberal viene dalle pagine di Policy Review, la rivista della «Hoover Institution» della Stanford University diretta dal 43enne Tod Lindberg, già studente di filosofia politica all'Università di Chicago con Allan Bloom e Saul Bellow e giornalista conservatore-moderato. Fu Lindberg che pubblicò in primavera l'articolo con cui il neoconservatore Robert Kagan affermò che «gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere» e quindi «non condividono più la stessa visione del mondo». La risposta a Kagan arrivò, sempre su Policy Review, da un articolo firmato da Ronald Asmus e Kenneth Pollack - l'ex analista della Cia sull'Iraq autore del libro The Treathening Storni che chiedeva a Bush di rovesciare Saddam - nel quale si affermava che era auspicabile, possibile e necessario un «Nuovo progetto transatlantico». La sfida a Bush veniva lanciata nel nome di Harry Truman, il presidente democratico che vinse la seconda guerra mondiale, usò l'atomica contro il Giappone e iniziò la Guerra Fredda contro l'Urss scommettendo sulla Nato, l'alleanza strategica con l'Europa. Per Asmus e Pollack la via transatlantica resta la migliore per affrontare il terrorismo, nuovo nemico al posto dell'Urss. E' questo il punto di partenza della teoria neoliberal: l'America non può fare da sola, l'egemonia globale ereditata dalla fine dell'Urss è frutto dell'alleanza con l'Europa e sempre l'Europa resta il partner per affrontare le sfide del nuovo secolo perché la forza militare non basta quando la partita da vincere è globale. «L'attuale approccio degli Stati Uniti al post-11 settembre è inadeguato - scrivevano Asmus e Pollack - perché rassomiglia alla linea Maginot con cui la Francia illudeva di difendersi dalla Germania di Hitler». Ovvero: per garanthe la sicurezza collettiva è meglio affrontare le cause della minaccia anziché blindarsi come una fortezza. Sul come farlo l'idea è di «vincere sul campo di battaglia politico come su quello militare». «Le guerre in Iraq e Afghanistan sono state giuste ma l'uso della forza non può essere esclusivo, serve la politica» sottolinea Kenneth Pollack. L'idea della «politica preventiva» - a fianco e non in sostituzione della «guerra preventiva» - ha trovato proseliti. Will Marshall, direttore del «Progressive Policy Institute» di Washington - quello che lanciò il progetto della «Terza Via» ai tempi di Bill Clinton - l'ha fatta propria, assieme a studiosi dell'Università di Stanford come il russologo Michael McFaul e commentatori come Larry Diamond, autore su Policy Review di un saggio sulla «Democrazia Universalista» in cui teorizza la compatibilità fra la democrazia e l'Islam. Ma ciò che più conta per Asmus e Pollack è che le idee neoliberal cominciano ad affiorare nei discorsi dei candidati democratici per la Casa Bianca. «Leggete ciò che stanno dicendo sulla politica estera John Edwards, Joseph Lieberman e in parte anche John Kerry - assicura Asmus - e vi accorgerete che il dibattito ha preso piede». Nessuno può dire oggi chi sfiderà Bush, ma l'obiettivo dei neoliberal è che la «politica preventiva» entri nel programma con cui i democratici correranno nel 2004. La pubblicazione sul Washington Post, la scorsa settimana, del manifesto neoliberal sul Medio Oriente è stato un passo in questa direzione anche se molto altro bolle in pentola: il laboratorio di idee ha appena iniziato a fimzionare con l'intento di allontanare i democratici dalla tentazione di sposare le posizioni anti-guerra della sinistra liberal rappresentata da Howard Dean. Due pilastri sono già definiti. Primo: la nuova strategia occidentale deve affrontare le cause del terrorismo e non solo i sintomi, quindi deve occuparsi di stagnazione economica, alienazione sociale, mancanza di istruzione ed incapacità di affrontare la modernità presenti nei Paesi del «Grande Medio Oriente», come definiscono lo scenario della caccia ai terroristi e alle armi di distruzione di massa. Secondo: l'Occidente non può imporre il proprio sistema di governo ad altri. Pollack, Asmus, Diamond e McFaul indicano dei passi concreti da compiere sui quattro fronti della guerra in atto. In Afghanistan «gli Stati Uniti non devono commettere l'errore di andarsene come hanno già fatto una volta» impegnandosi in un' opera di «nation building» costruzione nazionale - destinata a essere portata ad esempio in tutta la regione. In Medio Oriente «non possiamo aspettare che emerga una nuova società palestinese prima di negoziare seriamente perché ciò pregiudica il successo dell'agenda di stabilizzazione in tutta la regione» e se fosse necessario «la Nato deve essere pronta a monitorare l'intesa israelo-palestinese». In Iraq «è critico riuscire a stabilire una successione democratica» al regime di Saddam Hussein: il focus deve essere sulla costruzione di una società tale da non dover essere più considerata fonte di terrorismo e proliferazione di armi di distruzione di massa. In Iran «bisogna trovare il modo per impedire al regime di terrorizzare la regione aiutando l'emergere di nuovi leader». Infine i «moderati» come Egitto ed Arabia Saudita perché «non si può promuovere la democrazia nei Paesi nemici senza farlo in quelli amici». Al fondo della strategia c'è il pensiero di Larry Diamond: ogni Paese può diventare una democrazia, non ci sono Paesi condannati alla dittatura. «Il principale ostacolo alla democrazia sono le risorse di cui dispongono dispotiche élite dominanti». Per isolarle la strada è un «New Deal» globale contro miseria, fame e illibertà coinvolgendo le istituzioni finanziarie intemazionali nel progetto proposto da Bush di collegare aiuti economici solo «made in Usa» a riforme politiche nei Paesi meno sviluppati. L'obiettivo è «prendere le redini dell'azione militare senza ripetere gli errori del Presidente» Elaborare una «politica preventiva» a fianco e non in sostituzione del «conflitto preventivo» «Gli attacchi all'Iraq e all'Afghanistan sono stati giusti, ma l'uso della forza non può essere esclusivo» Gli Usa non possono fare da soli: è necessaria l'alleanza con l'Europa Ronald Asmus I busti di George W. Bush e di Al Gore davanti alla bandiera americana durante la campagna presidenziale del 2000 Larry Diamond