La vocazione cattolica dei Celti

La vocazione cattolica dei Celti ANNO XXVII « N. 1372 » 26 LUGLIO 2003 » LA STAMPA » SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO » SPED. IN ABB. POST. » PUBBL. 450/» » ART. 2 COMMA 208 » LEGGE 662/96 - TO » E-MAIL: tuttollbrl@lastampa.lt La vocazione cattolica dei Celti LA MIA CITTA' Masolino d'Amico QUANDO andai per la prima volta a Dublino per trascorrervi un anno accademico, quarant'anni fa, provai fortissima la sensazione di essere approdato non solo fuori d'Europa, ma addirittura per qualche verso fuori del mondo occidentale. Già l'Inghilterra presentava all'europeo del continente forti segni della sua determinazione a mantenersi il più possibile insulare ed eccentrica - vigevano ancora i rigidi orari della vendita di alcolici, la domenica era un giorno di silenzio totale con al massimo qualche cinema aperto per spettacoli limitati, la sterlina era ancora divisa in venti scellini e lo scellino in dodici pence; il cibo era deplorevole quasi dappertutto. Ma oltre a una anglicizzazione in questo senso, l'Irlanda tendeva poi a distinguersi ulteriormente dalla stessa detestata Inghilterra, per esempio ignorandone le novità culturali. Nel 1963 vigeva ancora a Dublino la censura sui libri, anche se pochi ci badavano e all'Università nessuno, ma per esempio IWlisse» di Joyce era al bando (Joyce era un irlandese cattivo, un figlio ingrato che aveva diffamato la patria); quell'anno uscì in Inghilterra «Il gruppo» di Mary McCarthy, e Dublino lo mise subito all'indice. L'Irlanda era poverissima, e la sera Dublino appariva molto buia. Notando molte ragazze in piedi e in paziente attesa lungo O'Connell Street le scambiai ingenuamente per prostitute e mi meravigliai, un Paese così cattolico. Erano, invece, bravissime figliole, in attesa sotto la pioggia che il ragazzo con cui avevano un appuntamento si decidesse a arrivare. Gli uomini disponibili erano rari, mi spiegarono - tutti quelli in gamba emigravano - e quindi se la prendevano comoda. Non sembravano nemmeno tenere molto alle ragazze, del resto. Stavano molto tra loro e (piando uscivano si ubriacavano rapidamente. Io avevo un'automobile e diventai popolare tra le compagne dell'Università, perché dopo le feste, quando i loro corteggiatori erano finiti sotto il tavolo, le riaccompagnavo a casa. Ai parties studenteschi si sparse la voce che ero italiano e quindi non bevevo (nel senso in cui bevevano loro, si capisce), e avevo sempre tre o quattro colleghe che si prenotavano per «dopo». Questo tra l'altro' mi mise rapidamente in condizione di conoscere tutta la città. Al cinema davano solo film vecchissimi, quelli nuovi non arrivavano che di rado e capricciosamente. Passavano spesso quelli in bianco e nero con Errol Flynn (me li rividi tutti), il quale benché nato in Tasmania e diventato celebre a Hollywood era stato adottato come una specie di eroe tipicamente irlandese. La Tv nessuno la guardava mai, tranne il rugby e, meno, il football (parecchi ubriachi per strada si complimentarono con me la notte che il Milan vinse la Coppa dei Campioni). Un grande passatempo sociale di noi studenti era, la domenica mai. .ina, il «beagling», ossia la caccia alla volpe a piedi. C'erano vari club che si convocavano in luoghi pittoreschi della campagna e poi lanciavano i cani (beagles) all'inseguimento della bestiola; noi li seguivamo a piedi, correndo con stivali di gomma per monti e vallate, paludi e arenili. Non si prendevano mai prede, ma dopo varie ore di questo esercizio si finiva al pub dove naturalmente tutti bevevano (non ho mai visto nessuno mangiare niente) e cantavano in coro. Era una delle rare occasioni per incontrarsi che avevano i sessi opposti. Be', tutto questo è finito. Oggi a Dublino la moneta è l'euro, e la città, diventata nel frattempo opulenta - le case costano ormai più che a Londra - vanta ristoranti eccellenti, librerie fornitissime e à la page, blockbusters, servizi igienici impeccabili, e insomma tutto quello che ci si aspetta da una capitale europea. Il «beagling» non esiste più, ne chiesi notizie a Roddy Doyle, l'autore dei «Commitments» e di tanti altri spirito- si libri sulla città di adesso, e lui, che è alquanto più giovane di me, non ne aveva mai nemmeno sentito parlare. La National Gallery, ai miei tempi alquanto trascurata e polverosa, ha riordinato le sue collezioni scoprendo di possedere, tra l'altro, un incomparabile capolavoro di Ca¬ ravaggio. Dell'odio per gli antichi oppressori non parla più nessuno - non capita più di sentir teorizzare nei pub, per esempio, la necessità di assassinare il principe Carlo - anche se il revisionismo storico è stato usato, come accade, per giustificare operazioni discutibili. La sobria, elegante architettura settecentesca di certe piazze dublinesi è stata convenientemente denunciata come coloniale («georgiana», quindi macchiata dal nome di re britannici) e così in qualche caso demolita per consentire delle più o meno turpi speculazioni edilizie. Ma sul fronte culturale il bilancio è positivo, vedi anche solo l'esplosione di un impressionante numero di scrittori, narratori, saggisti e commediografi, rapidamente esportati in tutto il mondo. L'anno scorso nel West End londinese si davano contemporaneamente non meno di cinque lavori di drammaturghi irlandesi viventi, cosa che non avveniva dai tempi di Oscar Wilde e Bernard Shaw, i quali peraltro erano degli emigré. Tutto questo non è una novità, ma un ritorno. La vocazione europea degli irlandesi è infatti antichissima, e lo ha dimostrato qualche anno fa il prezioso libretto di uno studioso americano, Thomas Cahill, intitolato «Come gli Irlandesi salvarono la civiltà». In breve, la tesi è la seguente. Gli Irlandesi, fiera popolazione celtica, furono raggiunti tardi dal Cristianesimo (quinto secolo d. C.) ma lo abbracciarono con entusiasmo, perché vi trovarono molto di congeniale - erano gente allevata a non dare importanza alla vita, a trovare un senso magico nella natura, a organizzarsi in piccole comunità. Ora, quegli ex pagani si appassionarono alla cultura cristiana e a quella classica su cui la cultura cristiana si era innestata proprio mentre lontano da loro l'Impero Romano crollava sotto le spinte dei barbari, e i popoli calati dal Nord facevano terra bruciata della stessa vicina Inghilterra. Arrivò un momento in cui l'intera Europa continentale era stata travolta dalla barbarie, e la fiammella del sapere antico ardeva soltanto nei piccoli dimenticati monasteri della verde isola... dalla quale col tempo spedizioni di monaci già collezionisti e squisiti copiatori di manoscritti ripartirono per restituire al Continente quel sapere che era stato suo; e prima di soccombere a loro volta agli invasori vichinghi, fondarono dappertutto, da Auxerre a Ratisbona, da Vienna e Lucca, monasteri all'origine di nuove città. I LIBRI O Thomas Cahill, «Come gli Irlandesi salvarono la civiltà», Fazi 1997 O Roddy Doyle, «1 Commitments», Guanda 1998 O Jennifer Johnston, «Due lune». Le Vespe 2000 O Carla De Petris e Maria Stella (a cura di), «Continente Irlanda Storie e scritture contemporanee», Carocci 2001 O ColmToibìn, «11 faro di Blackwater», Fazi 2002 I LIBRI civiltà». Iè la segudesi, ne radntatromagra, a piccole quegli ex pill