Così decisi di non fare il GIORNALISTA di Igor Man

Così decisi di non fare il GIORNALISTA IGOR MAN RICORDA IL SUO PRIMO SERVIZIO, E LO SGOMENTO CHE NE SEGUÌ. ERA LA FATALE ESTATE DEL '39, A CATANIA Così decisi di non fare il GIORNALISTA Igor Man IL ricordo sorge al calar delle tenebre, quando il sole si svena per resistere all'invasione ineludibile del buio. Mentre il mare lentissimamente si impadronisce dell'ultimo chiarore, l'emorragia del tramonto rossa allaga la riva. «Come nell'Africa dei Grandi Laghi, non è vero?», mi disse una volta Moravia. Catafratto nella solitudine, il Maestro coltivava il suo affollato amarcord in una sedia da regista, mal collocata sulla battigia in paziente ritirata di fronte all'alzarsi della marea. Trasmesso il pezzo, io; puliti i pennelli prima di adagiarli nell'acqua ragia, lei, con mia moglie compivamo il rito della lunga passeggiata, dal Lido Azzurro a Saporetti. Giunti all'altezza del Maestro, lo salutavamo abbassando lievemente la testa. Nell'istessa maniera Moravia ricambiava il saluto, e lì finiva. Tuttavia, qualche volta, Moravia mostrava vogba di scambiar parola: faticosamente levandosi in piedi. (Un paio di jeans sfrangiati dalle stagioni, una camicia dal collo rivoltato, arancione, un fazzoletto sbiadito a modo di fusciacca appariva «trasandato»; Mariarosa, invece, sosteneva ch'egli fosse «naturalmente elegante», come pochi). Non è che sprecassimo troppe parole per i luoghi, i colori, gli odori che avevamo viaggiato e dei quali, non di rado, sentivamo acuta la nostalgia. Erano discorsi brevi, i suoi, preziose cronache della memoria. Una volta, una volta sola, accomunai i tramonti di Sabaudia così misteriosamente ricalcati su quelli d'Africa, ai tramonti che insanguinavano la Plaja, la sconfinata spiaggia bianca di Catania. ((Debbo a Vitaliano Brancati, scrittore da me stimato, la visione d'un tramonto unico: non alla Plaja ma al teatro greco di Siracusa', là dove il mare dei greci è il giusto fondale», disse Alberto Moravia. Ora è successo, qui a Sabaudia dove sono appena approdato, che un ragazzo palestrato abbia affrontato in sciocca compagnia il mare mosso dal Maestrale, finendo nei guai. Lo ha salvato un giovine bagnino, riportandolo vivo sulla sconfinata «spiaggia libera», gemella, in bellezza, della Plaja. Più tardi, complice imo dei tramonti di Moravia, è sorto dalla memoria del Vecchio Cronistr il primo servizio. «L'inverno studi, l'estate impari a fare il giornalista e che Dio t'assista», aveva detto mio padre. Correva la fatale estate del 1939. L'anno prima avevamo visto i nostri cari amici russi, i Grinstein, espulsi ((perché ebrei», costretti a lasciare Catania, loro seconda patria, con una valigetta 24 ore e basta. Mio padre s'adoperò invano per sottrarli allo sfratto razzista e passò i suoi guai per questo. Lo salvò da più terribili castighi un grosso gerarca fascista, Filippo Anfuso: in nome del- l'amicizia. Erano stati compagni di banco alle elementari. E fu lui a farlo «comandare» a Roma sicché lasciammo Catania sul finire del'39. Il mio primo (vero) servizio, dunque. Erano le sette della sera del 23 di agosto (del '39) quando il capocronista delPopoZo di Sicilia, il rag. Pappalardo (che sarebbe morto, prigioniero di guerra, nel duro Campo 23, alle pendici dell'Himalaya), mi disse di correre alla Plaja: «E' annegato un ragazzo, pare che il segretario federale abbia vanamente tentato di salvarlo; va', controlla, toma subito e scrivi. Se il pezzo riesce prometto che non ti manderò più a fare gli ospedali. Ab: prendi un bigbetto di andata e ritomo, così si risparmia, portamelo, te lo farò rimborsare». Il tranvetto, piccolo e nervoso, comperato di seconda mano a Charleroi (Belgio), partendo dalla Porta Uzeda (quella dei Viceré, il capolavoro di Federico de Roberto) raggiungeva il Lido Azzurro, rifugio delle famiglie-bene, per subito dopo arrestarsi al capolinea del Lido Sport, casareccio e perciò frequentato dal cosiddetto (allora) ((basso ceto». Andai subito dal bagnino, un giovine fauno nero d'abbronzatura verace, gli occhi saccheggiati dal pianto. «Ma quale federale che si prodiga, quando mai: lui vide che quello era in difficoltà e corse al Lido Spampmato per telefonare. U carusu lo portai a riva io quando fu dato l'allarme. Il mare era una tavola, tale e quale ora, iddu forse lo risucchiò un gorgo, vallo a sapere. Affondava e risaliva, mi sgusciava dalle mani, fu una lotta bestiale, io pregavo la Madonna del Carmine e alla fine lo portai a riva. Lo rivoltai e gh feci buttare l'acqua, cercavamo d'aiutarlo in tanti ma alla fine capimmo ch'era morto. Con questo mare buono, cosi di pozzi». Pausa. «Domani esce sul giornale?, allora lo deve vedere», sentenziò. Veramente ne farei a meno, sussurrai; di morti avevo visto soltanto mia madre. Solo che lei sorrideva mentre questo, u carusu annegato, non m'aspettavo che fosse un bel vedere. Un telone lo copriva pietosamente e il bagnino esitò un momento a levarglielo di dosso. Il corpo giovine dell'annegato era diventato un otre, chissà quant'acqua di mare tratteneva ancora. Così gonfio com'era somigliava poco a un essere umano, a una enonne razza, piuttosto. La pelle era d'un giallo che imitava il vomito dei cani. Il volto conserva- va una austera bellezza ancorché stilature di sabbia bagnata lo truccassero da clown, impietosamente. Una piccola folla di bagnanti assediava l'annegato, bisbigliando una poltiglia di consonanti. Arrivò un vigile urbano caracollando sulla rena candida causa scarponi neri appesantiti da vecchi gambali puzzolenti. Gentile, mi dettò «le generalità del defunto» che aveva appena 17 anni. «L'anni di mafigghiu Turi», disse il vigile e sarebbe scoppiato in pianto se, improvvisamente, un urlo ferino non avesse attraversato l'aria, il cielo, il mare fattosi del colore della medusa morta, il nostro stomaco. A urlare era ima donna, giovanissima. Le scarpe in mano, saltando come una capra sulla rena calda, vestita di nero, i lunghi capelli, color dell'antracite, sconvolti dalla irregolare corsa verso il cadavere, coprivano il viso di lei che tuttavia si intravedeva bello. «Filippo, FUippuzzo mio, fratuzzo beddu, unni si, chi tti ficiru, sanguzzu miu, ciatuzzu di tua sorella, susiti (alzati) e abbracciami», gridava con voce villosa e le grida del suo lamento allontanavano la piccola folla non più addolorata bensì impaurita, trafitta com'era da quell'incalcolabile disperazione tellurica. «Scopritelo», ordinò giunta che fu a un passo dal fratello annegato ma quando lo vide così gonfio e mutato nelle già deheate sembianze, la sorella cacciò un urlo nuovo, da erinni popolana; poi, lanciate le scarpe in mare, gridò più volte «maledetto, maledetto, maledetto». Infine, sfasciandosi addosso al fratello, prese a baciarlo con delicata furia, selvaggiamente suggendogli le labbra viola, mugolando il suo variabile pianto, siccome belva intimamente ferita, e, per tanto, desiderosa di morire. (C'è un dolore che somigha agli altri e i suoi lamenti, del dolore dico, son sempre gh stessi: questo allorché è la madre a piangere il figlio. Un dolore per tutte le madri: vietnamite, palestinesi, israeliane, salvadoregne, mafiose, eccetera. Il dolore della sorella, specie nel Sud del mondo, svilito dallo sviluppo del sottosviluppo, quel dolore è invece diverso. Un dolore, si fa fatica a dirlo, incestuoso. Psicologicamente incestuoso). Tra un bacio e l'altro, la sorella vanamente gemeva: «Resuscita Filippuzzu, resuscita, fallo per me, tua soruzza sono, non mi conosci più?». Inatteso, un colpo di vento sollevò la gonna nera della sorella rivelando due cosce possenti, bianche come la magnolia. A quel sunto il vigile si chinò a rassettare la veste, dicendo severo: «E ora basta. Farce sepulto e lei, signorina, facissi a cortesia di alzarsi. Ecco le scarpe». Consegnando il pezzo al ragionier Pappalardo: «Capo - gh dissi dapo l'esperienza di oggi ho capito che tutto farò nella vita fuorché il giornalista». Infatti. Sulla Plaja il corpo di un giovane annegato diventato un otre. L'urlo ferino di una donna ci attraversò lo stomaco In alto il mare di Catania in una vecchia e suggestiva fotografia di Luigi Martinez. Qui a fianco Igor Man: nell'estate del 1939, pochi mesi prima di lasciare Catania con la famiglia per trasferirsi a Roma, aveva cominciato a farsi le ossa al Popo/o d/S/c/Z/a. «L'inverno studi», gli aveva detto il padre, «l'estate impari a fare il giornalista e che Dio t'assista»