«Mostrare quei corpi è sconfiggere il mito» di Maurizio Molinari

«Mostrare quei corpi è sconfiggere il mito» MICHAEL IGNATIEFF. STORICO E STUDIOSO DELLA SOCIETÀ' AMERICANA «Mostrare quei corpi è sconfiggere il mito» I professore di Harvard: «C'erano ragioni politiche molto forti per farlo, ma moralmente la cosa non è attraente» intervista Maurizio Molinari dal corrispondente da NEW YORK STORICO dell'Università di Harvard e apprezzato studioso della società e della politica americane, Michael Ignatieff risponde alle domande de «La Stampa» dalla sua casa in Francia, dopo aver visto in tv le immagini dei figli di Saddam. Come spiega la decisione americana di diffondere le foto, è rimasto sorpreso? «Come nel caso del capo guerrigliero sudamericano Che Guevara, mostrare la salma significa sconfiggere il mito, il fantasma che rifiuta di morire, ovvero il peggiore nemico possibile. Lo stesso vale oggi per Saddam Hussein: fino a quando le forze americane non saranno in grado di mostrarne la salma, continuerà a essere il peggior pericolo per la stabilizzazione del dopoguerra. A mio avviso l'analogia con il precedente di Che Guevara c'è tutta». C'è dunque ima costante nella storia americana nell'uso politico delle fotografie delle salme dei peggiori nemici nazionali? «Stiamo parlando della politica dell'uso delle fotografie, che è un tema di studio e approfondimento da tempo. L'obiettivo di questa politica è provare che il nemico è morto e ha a che fare in primo luogo con l'identità del nemico. Se Uday e Qusay Hussein fossero stati nemici insignificanti degli Stati Uniti non ci sarebbe stata alcuna necessità di mostrarne i corpi in pubblico. Lo stesso valeva all'epoca, in America Latina, per il rivoluzionario Che Guevara. Qusay e Uday erano nemici assai significativi, erano i simboli del vecchio regime e ancor più della sua possibilità di sopravvivere, trattandosi della giovane generazione del Baath, dei figli del leader assoluto». Le ragioni per la scelta fatta, insomma, c'erano? «C'erano ragioni poUtiche molto forti per mostrare queste immagini, anche se moralmente la cosa non è affatto attraente. Ci troviamo infatti di fronte al tabù della salma: non è un caso che nel testo della Convenzione di Ginevra vi siano norme che impediscono di mostrare i nemici morti sul campo di battaglia». Si tratta di un tabù radicato anche nella società degli Stati Uniti? «Certo, come lo dimostra la levata di scudi che seguì alla diffusione delle immagini dei prigionieri di guerra america- ni da parte degli iracheni nei primi giorni del conflitto. La protesta popolare fu massiccia e le immagini arrivarono sugli schermi delle tv in ritardo e molto frammentate. La protezione delle immagini del prigioniero di guerra, del ferito in combattimento e ancor più della salma del nemico è un tabù molto radicato nella cultura occidentale nel suo complesso, perché ha a che vedere con la dignità dell'uomo, ma la necessità politica di vincere il conflitto contro la guerriglia ha obbligato l'America a lasciarselo alle spalle. Attenzione però a non commettere l'errore di ritenere gli americani peggiori di quanto non sono altri popoli». Che cosa intende dire? «Che ho visto e letto spesso delle foto di vittime di delitti di mafia in Sicilia, con i corpi dilaniati in terra e le chiazze di sangue sul cemento nelle strade di Palermo come di qltre città. Nessuna fra le nostre società è immune dalla tentazione di trattare la morte con mancanza di rispetto. Quella americana non è per nulla diversa dalle altre». Crede che la diffusione delle immagini di Uday e Qusay servirà allo scopo politico in Iraq? «Pubblicare foto orribili è un passo che cela un problema enorme: la mancanza di credibilità per l'autorità dell'amministrazione militare dentro i confini dell'Iraq. Se negli anni Settanta uno, due o più capi delle Brigate Rosse venivano ammazzati dalla polizia in Ita¬ lia il capo del vostro governo non ne mostrava i corpi in televisione perché non ne aveva alcun bisogno, la sua autorità nel Paese non era messa in dubbio. Il problema di fondo è invece che in Iraq nessuno crede al capo dell'amministrazione militare, ambasciatore Paul Premer, o al presidente americano George Bush. Solo con il tempo verremo a sapere se il tentativo di accreditarsi agli occhi degli iracheni ha avuto successo oppure se è stato un fallimento». S«*Uf»,« Son tld»^ VeitrtM rortktt ftugery «n Ula Ltc On 20 Apri), flatr maxiu after ta «unir.iuon uumpt ita ilutnr*) Ut I«ft iUsìj. A» liytm òU Uifey tiufccweoi miay io npfec* a Mnportiy Mtcrotì ifcvlea «Ulti nuiul pia». Oaa (rf U« bull ttocura uiU Ait wt* hit Utt twslotpracvdijró. CM. fbflUtm «y imi ths pi» te ■Bill, pmttl e b««r«*lWybut!jo««ii«uat«fww«(tlìt. b«uta«.7pMiAiKifiMifóKC Zfc&qrwnNUeMda rmptntìai m* fbyiiejl ifmtqsy. BBar' Mmmmmwmm m Piozevif hJitatt Asinistra il politologo Michael Ignatieff. A destra! documenti pubblicati dagli ameiicania conferma dell'identità di Uday: i raggi X (all'estrema destra) della gamba riconoscibile per una precedente frattura (qui accanto)

Persone citate: George Bush, Guevara, Michael Ignatieff, Paul Premer, Qusay Hussein, Saddam Hussein