«Tutti in Cina, per giocare in attacco» di Francesco Sisci

«Tutti in Cina, per giocare in attacco» NONOSTANTE LA SARS NEI PRIMI SEI MESI DEL 2003 IL PIL DEL GIGANTE ROSSO E' CRESCIUTO DELL'8,2% «Tutti in Cina, per giocare in attacco» Economia solida, un grande mercato da conquistare reportage Francesco Sisci PECHINO SARÀ la lontananza, diecimila chilometri e più, oppure i numeri, quasi un miliardo e mezzo di abitanti, o forse anche la civiltà antica e diversa che si perde, senza soluzione di continuità, nella notte dei tempi, o sarà anche la rapidità di crescita, circa il 907o all'anno da un quarto di secolo... comunque è sempre facile dipingere la Cina dei colori del mostro. Ed è forse ancora più facile addossare agli altri responsabihtà che invece sono di casa nostra. Così il drago cinese comincia a sputare fiamme e divorare, come fossero innocenti pargoletti, posti di lavoro, quote di mercato, profitti, redditi e magri stipendi, tutti insieme con le sue voraci, famehche, enormi fauci trita-tutto. I numeri di quest'anno poi aggiungono spavento a paura. La diabohca Sars, la polmonite atipica, che ha steso i sistemi di sicurezza e di sanità di mezza Europa, non è riuscita ad arrestare la locomotiva cinese. Nel secondo trimestre dell'anno, quando Pechino è rimasta isolata dal resto del Paese per due mesi, la crescita cinese si è attestata sul 6,7 per cento. Un calo verticale rispetto al -1-9,3 registrato nei primi tre mesi dell'anno, ma comunque ancora sufficiente da garantire alla Cina un aumento del Pil dell'8,2% nel primo semestre 2003 ed ima media annua attorno al 707o, come era nelle previsioni iniziali. Anzi, c'è stata una furiosa ripresa registrata in tutto il Paese con l'estate, come se la fine della Sars avesse avuto l'effetto di nuova spinta vitale per tutti i sopravvissuti. E se, come sperano le autorità, la Sars non si riaffaccerà con la stagione fredda, il 2003 potrebbe essere un anno di crescita record per il Paese. Forse sarà anche questo slancio che lascia abbacinati gli operatori italiani che da anni vivono qui e che, senza fare troppo chiasso, stanno cercando di trasferire in Cina parte delle loro attività. La regione del Guangdong, nel sud della Cina, con capoluogo Canton, è patria della maggior parte di questi insediamenti industriali stranieri. Oltre l'SO per cento degli italiani che producono in Cina per ri-esportare sono qui. Nel Guangdong la manodopera è a basso costo, ma è anche capace e relativamente bene addestrata. Il governo locale poi offre condizioni molto vantaggiose per le tasse, l'uso delle infrastrutture e la soluzione di vari problemi che possono sorgere con i partner cinesi. «Non si tratta della semplice questione che gli operai costano meno che in Italia, è un intero ambiente che è più favorevole e disponibile a venire incontro alle esigenze delle imprese straniere», spiega Federico Palazzari, avvocato a Pechino per la Birindelli e associati. «In Cina lo stato si fa manager per le imprese ad alto livello: fa porti, poi costruisce rapidamente strade, quindi ci porta la ferrovia, le linee di telecomunicazioni ad alta velocità. Insomma cerca di favorire la produzione delle imprese», precisa Palazzari. Secondo il quale non si tratta di pensare di aggiungere e toghere posti di lavoro da una parte o dall'altra: questo è un approccio mentale che è sbagliato. «Non si può pensare ai rapporti tra Cina e Italia in temimi algebrici: un posto di lavoro in più in Cina è un posto di lavoro in meno in Italia. È questa idea che è completamente sbagliata», dice Davide Cucino, presidente della Camera di commercio italiana in Cina e rappresentante della Fata. «Nel mercato globale le aziende italiane devono rimanere competitive a livello globale e poi cercare di penetrare il mercato cinese, che è potenzialmente il più grande del mondo. Per questo se restano semplicemente in Italia, con i loro alti costi di produzione, perdono quote di mercato globale e non entrano nel mercato cinese», sottolinea Cucino. In altre parole, non andare in Cina non serve a conservare i posti di lavoro in Italia ma al contrario rischia di metterli a rischio. Viceversa, decentralizzan¬ do parte della produzione e lasciando in Italia il cuore di tecnologia e design, si difendono quote di mercato e si moltiplicano i posti di lavoro qualificati. Per l'avvocato Luca Birindelli, titolare dell'omonimo studio legale a Pechino, è come in una partita di calcio: l'Italia non può difendere la sua produzione e i suoi posti di lavoro stando solo in porta, deve andare anche all'attacco, altrimenti finisce per essere infilzata dai goal. «Andare all'attacco, mettere in campo le punte, significa andare in Cma, conquistare fette di questo mercato», spiega alzando il tono di voce Birindelli. Del resto già alcuni big dell'industria italiana si stanno muovendo in questo senso. La Luxottica produce dalla Cina per il resto del mondo, e Natuzzi ha ormai attaccato il mercato americano con la sua produzione di divani fatti a Shen- zlien. «I posti di lavoro in Italia si salvano andando in Cina», afferma perentorio Birindelli. Attenzione, però, non ci sono soluzioni facili e immediate. I banchieri intemazionali, ad esempio, chiedono che lo yuan cinese si rivaluti dal 20 al 5007o, cifre che porterebbe il Pil cinese a sfiorare o superare quello tedesco. Una rivalutazione a breve termine frenerebbe sì le esportazioni, ma gonfierebbe e stimolerebbe il mercato interno cinese, dove sarebbe sempre più difficile entrare per chi non c'è già. E le dimensioni insieme alle potenzialità di crescita di questo mercato sono tali che lo renderebbero centrale, in medio termine, per l'economia globale. Inoltre, come successe negli anni '80 per il Giappone e le sue merci, la rivalutazione del cambio renderebbe possibile la penetrazione degli investimenti cinesi ovunque. L'economia cinese ha superato indenne l'effetto Sars: dopo due mesi di totale isolamento dal resto del mondo eternata a correre in preda ad un nuovo «slancio vitale»

Persone citate: Birindelli, Cucino, Davide Cucino, Federico Palazzari, Luca Birindelli, Natuzzi