Non ugole d'oro ma voci da rock
Non ugole d'oro ma voci da rock DISCHI Non ugole d'oro ma voci da rock Alessandro Rosa DI voci rock onnai ne esiste una gamma vastissima, e fra esse alcune hanno timbri inconfondibili. Per cantare il rock non serve un'ugola d'oro, ma uno strumento che graffia, che scolpisce, che racconta molto con il suono oltre alle parole. Dote naturale che appartiene a John Hiatt. Alcuni cantanti si consumano negli anni, usati da successo o indifferenza, ma Hiatt è fatto di altro legno. E' un cinquantenne dalla freschezza insolente, che oggi con 0 suo 18" album (di puro rock'n'roll) azzera false credenze di agonia di un genere. «Beneath thìs gruffexterìor))(Sanctuary, I Cd) vola spinto da una grintosa energia, quel vento forte di «american music» fatta con passione artigiana, con i vecchi strumenti. Hiatt ha ritrovato i tre sanguigni Goners due anni fa con l'ottimo «The Tiki Bar is open», ma l'intesa si è esaltata in un lungo tour di concerti. Ed ecco ora queste 12 ballate registrate in otto giorni, praticamente confezionate di getto. La spontaneità è la virtù del disco, dove voce e chitarra di Hiatt si amalgamano con l'inimitabile slide di Sonny Landreth per un festival folk-rock-blues costruito su tre accordi inossidabili, dove si rallenta di rado la corsa incalzante. Con i suoi tempi spietati, le chitarre all'inverso, anche Dave Gahan esibisce la sua ben riconoscibile voce in questo primo suo album solo, «Paper monster» (Mute, 1 Cd). Una rinascita più che un revival lezioso quello dell'excantante dei Depeche Mode. Abile a muoversi, delicato e teatrale, come su un windsurf sulle tendenze sonore attuali (anche grazie a Ken Thomas, produttore dei Sigur Ros), Gahan sorprende anche per il suo esordio compositivo. Con cui racconta ora l'intimità di un uomo innamorato («Stay») oppure esalta la forza superiore dello spettacolo del rock (la coinvolgente «Dirty sticky floors» con cui si apre il disco). Molto abile nel dominare tempi e intensità delle situazioni, nello scegliere l'amalgama dei bassi intensi e degli inserti di chitarra solista e armonica. Altro transfuga dei Depeche Mode, Martin L. Gore, l'anima dannata della band inglese, è già al secondo album. Con «Counterfeit2» (Emi, 1 Cd) seduce per coraggio e sensibilità nell'aver affrontato brani, scegliendo tra i meno noti (tranne «Candy says» di Lou Reed))), di Brian Ferry, Bowie, Nick Cave, Kurt Weill, Lennon, Nico, Brian Eno. Su un tappeto di suoni globalmente «soft» (e qualche arrangiamento acustico) Gore si misura con i suoi maestri. Lungo un delicato filo nevrotico, l'artista affascina in questa sua meticolosa ricerca di dare un vestito elettronico alle emozioni. Pochi cantanti sono riusciti a portare a termine una tale impresa sulla lunghezza di un album. Quella di Caleb Followill non la si conosce ancora, perchè con i Kings of Leon (tre fratelli e un cugino) ha appena esordito con un sorprendente «Youthandyoungmanhood» (Rea, 1 Cd). Conciso e secco il loro suono, come quello dei neopunk di New York. Invece arrivano da Nashville, hanno l'aspetto degli Strokes ma non ne condividono l'acidità alla Lou Reed, bensì sono degni eredi del boogie dei Creedence Clearwater Revival di fine Anni 60. Niente passatismi però, il loro rock rigenerato e incalzante per verve melodica fa brillare questo primo album di una classe irresistibile, di una forza che nasce dalla naturalezza. Dopo New York, Nashville sta per diventare la Mecca del rinnovamento rock?
Luoghi citati: Ken Thomas, Mecca, Nashville, New York
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