Fallisce la separazione, morte le gemelle siamesi
Fallisce la separazione, morte le gemelle siamesi I MEDICI DI SINGAPORE: HANNO PERSO TROPPO SANGUE, NOI ABBIAMO RISPETTATO LA LORO VOLONTÀ Fallisce la separazione, morte le gemelle siamesi «Vogliamo essere divise, qualsiasi cosa succeda trattateci come due persone» Maria Cerbi ROMA Oggi, nel giorno che sono morte, Ladan e Lelah sono delle eroine. Destinate dalla natura a vivere per sempre insieme, unite per la testa, sono morte quando hanno deciso di prendere strade diverse. Di essere finalmente delle persone «uniche». «Uniche» nel fisico, perché nel carattere, nelle ambizioni, nelle passioni, lo sono sempre state, nonostante la malformazione. Da quando erano piccolissime hanno cercato di mostrare al mondo che non erano «una», ma «due» e che cosi volevano essere trattate, E' stato difficilissimo farlo capire agli altri, ma chi le ha conosciute, chi ha avuto il coraggio di varcare la loro diversità, le racconta cosi: estroversa e vivace Ladan, timida e riflessiva Lelah. Hanno lottato contro pregiudizi, ipocrisia, cattiveria, dal primo giorno che hanno visto il mondo, ventinove anni fa, in un paesino a Sud dell'Iran, Firouzabad. Ieri, dopo un intervento durato 78 ore, eseguito al Raffles Hospital di Singapore, sono morte. «Siamo tutti molto tristi, ma la vita è cosi - dice il neurochirurgo Keith Goh -. Avevano perso troppo sangue e, nonostante massicce trasfusioni, non ce l'hanno fatta. Prima di cominciane a separare i cervelli, alcuni medici della mia équipe volevano smettere: troppe complicazioni. Abbiamo deciso di proseguire dopo che familiari e amici delle ragazze ci hanno ricordato l'unico desiderio di Laleh e Ladan:" Voghamo essere separate, qualsiasi siano le circostanze"». Era il 1974 quando nacquero. Le infermiere che assistettero al parto non vollero occuparsene. Non ce la facevano proprio a cullare quei due esserini «mostruosi». E cosi Ladan e Laleh, le gemelle siamesi unite per la testa, ebbero come «nido», la loro prima stanza, il bagno dell'ospedale. Era meglio tenerle nascoste. Il padre naturale, Dadollah Bijani aveva 11 figli, era troppo povero, spiega adesso, per occuparsene. E le abbandonò. Povero lo era di certo come di certo era spaventato da queste creature che i medici gli avevano presentato come sue fighe. Così le lasciò nel bagno dell'ospedale. E ci pensarono i medici americani a occuparsi di loro per i primi due anni. In molti credevano che non sarebbero sopravvissute che pochi mesi. Sbarbavano. Ladan e Laleh erano forti e determinate a resistere. Hanno imparato da subito a convivere con sguardi curiosi e spaventati. Hanno imparato ad accettare la loro condizione e anche a scherzarci su. Erano costrette a farsi forza l'un l'altra e ad andare avanti con il sogno, un giorno, di essere normali. Quando avevano avevano due anni. Ah Reza Safaian un medico che aveva saputo la loro storia si presentò all'ospedale e le adottò. La nuova casa delle piccole era a Karaj, città satellite vicino a Teheran, in un quartiere borghese. Mentre la rivoluzione islamica trasformava il paese Ladan e Laleh crescevano con i nuovi fratelh e un padre che adesso le piange disperato: «Quando le hanno portate a Singapore sapevo che avrebbero rimandato indietro i loro corpiLe hanno portate lì e le hanno uccise. Abbiamo vissuto nella stessa casa per 27 anni e provo un grande senso di vuoto». Il padre naturale, Byani, a un certo punto le andò a cercare e un tribunale affidò a lui la custodia delle gemelle. Ma le bambine non lo conoscevano e scelsero di rimanere con i Safaian. In quella casa sono cresciute in un clima di amore, con i giochi, la scuola e gli svaghi delle loro coetanee. Alla fine riuscivano sempre a bucare il muro di paura che le persone innalzavano quando le vedevano la prima volta. Un amico ha raccontato che correvano e saltavano come tutte le bambine della loro età e spesso avevano ginocchia sbucciate e gomiti sanguinanti. Quando avevano otto anni, dice ancora questo signore a un giornale americano, tentavano di separarsi da sole. E allora si davano il tempo - «uno, due, tre....» - e poi si lanciavano in una impossibile corsa in direzione opposte. In questo modo, pensavano, si sarebbero «spaccate» e sarebbero state finalmente libere di svegliarsi la mattina ognuna all'ora che gli pareva. Perchè erano condannate ad andare d'accordo, anche ihtigi normali tra sorelle erano impossibili. «Da quando abbiamo aperto gli occhi la prima volta e abbiamo visto la luce - disse una volta Ladan - noi volevamo separarci». Ladan voleva diventare avvocato e Laleh fare la giornalista, così pur di poter frequentare l'università, hanno fatto un compromesso sceghendo giurisprudenza. Studiavano, frequentavano gh altri studenti, partecipavano alle attività del campus ma continuavano sempre a cercare un chirurgo disposto a tentare un intervento per separarle. Nel 1996 credevano di essere finalmente vicine alla libertà. Corrono in Germania dove un équipe prende in esame il loro caso. Il verdetto è un'ennesima sconfitta: l'operazione è troppo pericolosa. Si ricomincia con la speranza fino a quando non sanno delle gemelline nepalesi separate dal dottor Keith Goh. Inizia il viaggio. «I nostri giorni migliori sono iniziati dopo l'arrivo a Singapore a novembre», spiegava Ladan pochi giorni fa a chi ancora mostrava dubbi sulla necessità dell'operazione. Le due sorelle passano il tempo che le separa dall'operazione scrivendo le loro memorie e il diario della speranza. Ogni tanto qualche intervista e sempre il solito ottimismo: «Non vediamo l'ora che arrivi il grande giorno. Voglio questa operazione anche perché è arrivato il momento di poterci vedere in faccia senza usare uno specchio». Non è stato così. Appena nate nessuna infermiera voleva occuparsi di loro Furono chiuse nel bagno dell'ospedale Le adottò un medico A otto anni tentarono di separarsi lanciandosi in due direzioni opposte Ladan e Lelah alla vigilia dell'operazione
Persone citate: Bijani, Karaj, Keith Goh, Reza Safaian
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