«L'economia tedesca non boicotta l'Italia»

«L'economia tedesca non boicotta l'Italia» IL MANAGER SICILIANO PROTAGONISTA IN GERMANIA: LEGAME SALDO «L'economia tedesca non boicotta l'Italia» Giuseppe Vita: escludo che il battibecco al Parlamento di Strasburgo abbia uno strascico nei rapporti commerciali. Siamo molto diversi ma questo è il vero segreto del successo della nostra collaborazione intervista Francesca Sforza corrispondente da BERLINO CI sono poche persone che conoscono bene i rapporti economici tra Italia e Germania come Giuseppe Vita. Classe 1935, originario di Faivara, in provincia di Agrigento, è arrivato in Germania giovanissimo con una laurea in Medicina e la specializzazione in Radiologia. Ha cominciato a lavorare alla multinazionale farmaceutica Schering come consigliere scientifico del Dipartimento di Ricerca Clinica a Berlino, e poi ha fatto tutta la carriera intema fino alla presidenza del Comitato esecutivo, che ha tenuto fino al 2001. Sotto la sua guida l'azienda tedesca - 24 mila impiegati e 125 filiali in tutto il mondo - è cresciuta, ha modernizzato le sue strategie ed è stata traghettata oltre le difficoltà della riunificazione. Oggi Giuseppe Vita, oltre a essere presidente del Consigho di sorveglianza per l'azienda in cui ha lavorato tutta la vita, è presidente del Comitato di sorveglianza della Hugo Boss, del gruppo editoriale Springer, di Bewag, Allianz Assicurazioni sulla vita, presidente onorario di Deutsche Bank Milano e membro del Consigho di Amministrazione di Sviluppo Italia e RAS. Nella sua lunga esperienza in Germania, Vita ha stretto le mani delle maggiori personalità del mondo politico e industriale della Repubblica Federale. Conosce con precisione i meccanismi del motore tedesco, ed è riuscito a farlo girare al modo degli italiani: usando l'inventiva, giocando la carta della competenza, mescolando con sapienza il rispetto delle regole e la fantasia. Giuseppe Vita, crede che i rapporti economici tra Italia e Germania saranno danneggiati dall'incidente che si e verificato al Parlamento Europeo di Strasburgo? «Un rischio di boicottaggio della nostra economia da parte dei tedeschi è assolutamente escluso. Le reazioni che io ho avuto modo di sentire sono reazioni di diffuso dispiacere, ma direi che si tratta di reazioni emotive. Non avranno nessuna conseguenza sul piano delle relazioni economiche. La Germania è il più grosso fornitore dell'Italia e per noi l'economia tedesca è un assoluto punto di riferimento. Quello che è successo fa male, inutile negarlo, ma i rapporti economici restano saldi». Non crede che nella quotidianità dei rapporti possa nascere, tra italiani e tedeschi che lavorano nell'economia, una diffidenza simile a quella che abbiamo visto tra americani e francesi durante la guerra in Iraq? «Pur nella gravità di quanto accaduto, non c'è nessuna volontà, da parte dei tedeschi, di rivalersi nei confronti degli italiani, che considerano partner e collaboratori di vecchissima data. Ripeto, il dispiacere c'è stato, ma tutte le persone con cui mi è capitato di parlare dicono che bisogna andare avanti, e non lasciare che l'incidente abbia un seguito. Posso immaginare che i giornali ci speculeranno sopra ancora per un po' di tempo, e che l'episodio tornerà a essere un argomento di discussione nel dibattito politico tra i due paesi. Ma l'economia è un'altra cosa, è fatta di gente che lavora, che ha a cuore in primo luogo i propri interessi, le carriere e i rendiconti alla fine del mese. Episodi come questo si superano in gran fretta». Come giudica il fatto che i tedeschi, sempre più spesso, vogliono distìnguere gli italiani da Berlusconi un po' come, durante la guerra in Iraq, gli europei distinguevano tra gli americani e George W. Bush? «In entrambi i casi si tratta di distinzioni che si fanno in momenti estremi, alla presenza di fatti estremi. E' chiaro che il modo con cui il presidente Berlusconi è intervenuto a Strasburgo ha fatto scattare questo genere di reazioni, ma direi che la maggioranza dei tedeschi sia pienamente consapevole del fatto che il governo Berlusconi rappresenta legittimamente l'Italia. Certo, se si votasse oggi non so se gli italiani rinnoverebbero il proprio consenso, ma questa è una valutazione che non spetta a me». Il caso è chiuso dunque? «Per la Germania sì, i vertici sono stati chiari, e non credo che abbiano voglia di riaprire la questione. Resta un po' di amarezza, perché i tedeschi amano moltissimo l'Italia e negli ultimi anni hanno anche imparato a stimarla; soprattutto nel settore degli scambi economici l'intesa è sempre più positiva. Le ombre, vedrà, lasceranno presto il posto alla qualità dei rapporti costruiti giorno dopo giorno. Se ima cosa del genere fosse successa negli Stati Uniti se ne sarebbe parlato per altri sei mesi. E poi, in fondo l'Europa è agli inizi, l'esperienza parlamentare comune sta movendo adesso i primi passi, si sbaglia e si continuerà a sbagliare, è anche normale. Per tutto ciò che riguarda l'Europa non bisogna pensare di sei mesi in sei mesi, ma guardare nell'arco di cinquant'anni. Prodi, ad esempio, che pure è stato tanto criticato, sono certo che sarà ricordato come un grande Presidente del- la Commissione. Con lui c'è stato l'allargamento, e la moneta unica, non è mica poco. Se l'Europa non funziona saranno i cittadini europei a soffrirne, molto più dei francesi, degli italiani o dei tedeschi presi singolarmente». Siamo davvero cosi diversi dai tedeschi, o nell'economia le cose vanno diversamente? «Siamo diversi, ma questo è il segreto della nostra collaborazione. Loro sono ammirati dalla nostra creatività, dallo slancio che portiamo nel lavoro, dalla capacità di reagire con prontez- za di fronte all'imprevisto. Noi, d'altra parte, di fronte alla loro capacità di organizzazione abbiamo ancora molto da imparare. Senza l'efficienza qualsiasi potenziale creativo va sprecato, o viene male utilizzato. Se fossimo un popolo solo - italiani e tedeschi - saremmo il popolo ideale: geniale ed efficiente, emotivo e razionale, creativo e organizzato. Non è così, ma proprio per questo abbiamo bisogno di stare l'uno a fianco dell'altro». Quanto è cambiato secondo lei il rapporto tra l'economia italiana e tedesca negli ultimi quarant'anni? «Non tantissimo, direi, perché i rapporti commerciali tra le due nazioni sono stabih ormai da molto tempo, anche se non a eguale vantaggio di entrambe. La Germania è il primo fornitore e il primo cliente dell'Italia, mentre noi siamo, per loro, il terzo o il quarto fornitore e anche come mercato di esportazione non siamo il mercato di riferimento più importante. Quello che è cambiato invece è la struttura delle importazioni e delle esportazioni; nell'arco di quarant'anni la Germania esportava in Italia più prodotti del- l'agricoltura di quanti non ne esportasse l'Italia in Germania, soprattutto il latte della Baviera che andava in Lombardia e nel resto del paese. L'Italia invece, contrariamente a quanto si potesse pensare, esportava in particolare prodotti industriali. Oggi invece la Germania non esporta al primo posto prodotti agricoli, ma soprattutto prodotti industriali, anche perché ha conquistato il mercato italiano, soprattutto quello delle auto. In definitiva, se guardo agli ultimi quarant'anni, trovo che la posizione della Germania si è rafforzata nei confronti dell'Italia, ma non si è rafforzata purtroppo quella dell'Italia nei confronti della Germania». Se dovesse consigliare a un italiano di andare in Germania come fece lei - che proveniva dal mondo dell'università e della ricerca - su quali settori gli consiglierebbe di puntare? «1 settori trainanti sono quelli classici: l'auto, l'industria chimica a cominciare dalla Basf, che è la più grande del mondo, la Bayer, la Henkel. E poi il settore dell'energia elettrica: mentre in Italia abbiamo ancora una situazione di quasi totale monopolio, in Germania ci sono colossi come E-on in cui per un italiano c'è moltissimo da imparare. Infine direi il settore delle biotecnologie. Qui la Germania sta facendo molto passi avanti, e se l'Italia non vuole rimanere indietro - scavalcata dai colossi americani e canadesi - allora dovrebbe guardare un po' di più proprio alla Germania». A sentire lei, il modello dell'industria tradizionale tedesca non sarebbe affatto in crisi. Come si spiegano allora gli indicatori economici che vedono nella Germania il paese più ammalato d'Europa? «Il modello renano, basato sul consenso con il mondo sindacale non è entrato affatto in crisi; l'indebolimento della Germania, secondo me, è legato ad altri fattori. Innanzitutto la riunificazione: non dimentichiamo che con la caduta del muro, 15 o 16 milioni di persone dell'est hanno cominciato a gravare sull'intero paese (soprattutto se si pensa agli ingenti trasferimenti di capitale per le infrastrutture nei nuovi Laender ) senza che l'economia mondiale desse la possibilità a queste persone, grazie anche a nuovi investimenti, di produrre e esportare economia nel resto del mondo. E poi c'è la crisi intemazionale: tutti i grandi mercati in cui la Germania esportava -America, Giappone, America Latina Russia, e Cina - hanno rallentato la crescita. Per un paese che sulle esportazioni punta così tante risorse, è inevitabile che tutto ciò si traduca in un arresto. A questo c'è da aggiungere un fenomeno tedesco, ma direi sempre più europeo, ovvero che moltissime aziende, per rimanere competitive, sono andate via dalla Germania o da altri paesi della zona Euro, e si sono trasferite in posti dove il costo del lavoro è molto più basso. Quindi abbiamo una parte di benessere che prima, quando c'era il muro, rimaneva da noi , e che invece con la caduta del muro sta andando verso paesi a basso costo di lavoro. Ma la Germania, malgrado la congiuntura intemazionale, resta un paese dove le strutture economiche sono forti e radicate. Sono ottimista sulle possibilità di ripresa di un'economia come questa». Ia^ Il benessere "™ nel Vecchio Continente è calato perché molte aziende hanno trasferito la produzione in paesi a basso costo del lavoro La struttura però resta solida 99 ^^ Negli ultimi 40 "^ anni, Berlino si è rafforzata molto nei nostri confronti Purtroppo non si può dire il contrario Nei Lànder il ciclo resta ancora ammalato ma il modello renano non è andato in crisi 99 Giuseppe Vita, presidente del Consiglio di sorveglianza della multinazionale farmaceutica Schering