Troppa grazia per «Candide»
Troppa grazia per «Candide» Troppa grazia per «Candide» IL problema con Candide di Léonard Bernstein non è se sia opera, operetta o commedia musicale, ma che fame. Uscito quasi contemporaneamente al fortunatissimo «West Side Story», né meno di quello impregnato del talento dell'indiavolato compositore, benissimo accolto dalla critica, non piacque al pubblico di Broadway e chiuse dopo appena una settantina di repliche: eppure gli interpreti erano beniammi e il regista, il glorioso Tyrone Guthrie. In seguito i tentativi di recuperarlo comportarono ogni volta grossi interventi, riscritture, tagli, aggiunte e via dicendo. La lista definitiva degli autori è un Gotha: adattamento del soggetto dal «Candide» di Voltaire, Hugh Wheeler; versi, Richard Wilbur; versi aggiunti, Stephen Sondheim, John La Touche, Lillian Hellman, Dorothy Parker e Léonard Bernstein. Di Hellman era stata la prima idea, quando il beffardo apologo volterriano sembrò adatto a prendere in giro il maccartismo e la caccia alle streghe. Tra le varie versioni ne piacque una concisa di Harold Prince negli Anni Settanta; un'altra da camera, gradevolissima, fìi ascoltata negli Anni Novanta a Batignano. L'ultima approvata da Bernstein è tuttavia quella curata da John Mauceri per la Scottish Opera nel 1988. Incorporando molto matenale sconosciuto alle edizioni precedenti (tra cui un irresistibile tango), è anche la più lunga, tre ore nell'eccellente allestimento or ora presentato all'Argentina di Roma con regia, scene e costumi di Enrico Castiglione, orchestra dal vivo, ottimo cast di cantanti-attori intemazionali squillanti malgrado la micidiale aria condizionata, e più di 50 coristi-ballerini. La storia come sempre segue Voltaire, sporadicamente in scena come narratore: sono le peripezie dell'innocente Candide, cui il filosofo illuminista Pangloss ha ottimisticamente insegnato che vive nel migliore dei mondi possibili, ma che poi passa da una disavventura all'altra. Il castello della Westphalia dal quale è stato scacciato perché innamorato della baronessina è raso al suolo dall'armata bulgara e i suoi occupanti torturati e uccisi. Candide capita cosi a Lisbona (terremoto e Inquisizione, con allusioni al maccartismo), Parigi (valzer, e la celebre aria di Cunegonde, «Glitter and be gay»), Cadice, Buenos Aires (tango, schiavismo, oppressione, giungla), Eldorado, oceano (tempesta e naufragio), Venezia, dove finalmente si ricongiunge con l'amata riscattata da un bordello. Brillantemente la regia guadagna il massimo della fluidità narrativa servendosi di una piattaforma ruotante in due sensi (intemo ed estemo) dentro una scena unica variabile con effetti di luci e pochi elementi agilmente introdotti. Gli innumerevoli episodi sono tutti spiritosi, le musiche sono sempre trascinanti, gli interpreti appaiono tutti all'altezza (impagabile la veterana Rosalind Elias): ma appunto, troppa grazia Sant'Antonio, ossia troppi momenti notevoli, e nessun accento particolare; troppa finezza nelle parole e nelle rime delle canzoni (oltretutto impossibili da tradurre), e non abbastanza semplicità. Una chicca, insomma; ma del cui reiterato mancato successo popolare forse non ci si sorprende poi tanto.
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