Un fiume di denaro dall'estero per i ribelli

Un fiume di denaro dall'estero per i ribelli OSCURE TRAME DIETRO LA GUERRA DI LIBERAZIONE DELLA REPUBBLICA CAUCASICA Un fiume di denaro dall'estero per i ribelli burattinai degli indipendentisti hanno un obiettivo: demolire la Russia analisi UN'ALTRA conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che la guerra cecena si è ormai trasformata in una piaga nel corpo già malato della Russia. Non è più, non sarà mai più, fino a una qualche conclusione negoziata di cui, per altro, non vi sono tracce - ima guerra per l'indipendenza nazionale della Cecenia dalla Russia. Altre forze hanno ormai preso il comando delle operazioni militari. Schiacciata dal rullo compressore della straripante superiorità russa - anche se corrotto, lento, inadeguato è ormai l'esercito russo - la resistenza nazionale è stata sconfitta e ridotta ai contrafforti montagnosi del Sud della Cecenia, Se non l'ha ancora fatto nel momento in cui si stampano queste righe, Aslan Maskhadov, presidente di quella Ichkeria che non esiste più, dichiarerà che lui, che loro, non c'entrano niente con questo ultimo attentato suicida multiplo. E dirà la verità, perché non è lui che organizza, arma e indottrina quelle donne, nere di lutto e di odio inestinguibile, che si fanno esplodere nelle strade di Mosca. Così come non fu Maskhadov, e nessuno dei suoi comandanti militari, a organizzare la Dubrovka. Le idee e i denari stranieri, che all'inizio erano un torrentello sussidiario per una orgogliosa resistenza cecena, sono divenuti fiume principale, se non esclusivo, di questa lotta terroristica, il cui obiettivo è chiaramente quello di gettare nel panico l'opinione pubblica russa, di colpire la stabilità interna dello Stato russo, al fine di modificare la posizio¬ ne della Russia nel contesto internazionale. Verso quali sbocchi, non è chiaro, salvo quello di indebolirla mortalmente e di tenerla in stato di soggezione. Così com'è del tutto non chiara la composizione di queste forze che alimentano il terrorismo. Dietro - e dentro questo terrorismo, che si ammanta della rivendicazione nazionale, agiscono spinte evidentemente intemazionali. La Russia viene trascinata a viva forza nella lotta mondiale contro il terrorismo. E viene da chiedersi: perché proprio la Russia? Perché non qualche altra capitale europea? La risposta è abbastanza semphee: perché in Russia c'è la materia prima abbondante per questo tipo di operazione, l'odio e la disperazione di otto anni di sangue. Ma anche perché la Russia è l'anello debole dello schieramento «occidentale». Vi è entrata riluttante e con un piede solo, per esseme subito respinta ai margini, accettata solo come subalterna, ancora temuta sebbene debole come mai lo fu nei suoi ultimi trecento anni di storia. Ci dobbiamo immaginare qualcuno che voglia dividere ciò che resta dell'Occidente già diviso, non possiamo stupirci se sta concentrando i suoi colpi proprio nel punto dove è visibile la fenditura. In ogni caso non c'è Paese - tra quelli che contano, e la Russia ancora conta - dove la corruzione statale sia così endemica, la pohzia così inefficiente e prezzolata, l'esercito così demoralizzato come in Russia. Ciò che altrove comporterebbe alti ris-hi di insuccesso, a Mosca può essere realizzato con elevate probabilità di riuscita. E l'effetto mondiale è assicurato comunque. Perché dunque rendersi la vita difficile. se lo si può fare facilmente a Mosca? Se così stanno le cose, i problemi, per Vladimir Putin, diventano tanto complicati da apparire irrisolvibili. Si sarebbe dovuto negoziare prima, ma con chi negoziare ora, se l'obiettivo dell'avversario non è più l'indipendenza cecena ma la demolizione della Russia? Inutile perfino imporre e vincere referendum a una popolazione comunque non pacificata e non doma; mutile stanziare miliardi per ricostruire Grozny, le scuole, gh ospedali ceceni, perché - anche se vi fossero i denan, e non ci sono - da quelle buone intenzioni non sorgerà la pace. Putin avrebbe dovuto capire da tempo che il problema ceceno non era più una «questione intema» della Russia. Dietro questa formula si sono trincerati tutti: il presidente russo, che non tollerava interferenze politiche, ma anche gh Stati Uniti, che non volevano compheazioni con Mosca nemmeno ai tempi di Bill Clinton. L'Europa stava, come al solito, a guardare. Nel frattempo la cornice della «lotta di liberazione nazionale» che era stata il motivo dominante della prima guerra cecena (1994 1995), è svanita nel nulla. E più Putin raccoglieva le sue vittorie di Pirro, proseguendo l'opera ingloriosa di Boris Eltsin, radendo al suolo villaggi, più la Cecenia si tingeva di verde islamico e di quell'altro verde, più sbiadito ma non meno potente, dei biglietti di banca della Federai Reserve, ma provenienti dai quattro punti cardinali. Quando è arrivato 1' 11 settembre la faccenda, già ridicolmente insostenibile, del ((problema interno», si è trasformata in un boomerang per la Russia. Un anno e un mese dopo è arrivata la Dubrovka e il «grande demone islamico» ha cominciato ad aggirarsi, vero spettro modemo, nehe terre asiatiche. Dalla guerra guerreggiata si è passati ai - e alle - kamikaze che si fanno saltare in aria con le loro vittime. E la Russia, guidata da un uomo che era stato eletto perché si era proposto come il difensore del¬ la sua dignità nazionale, ha continuato a sprofondare sotto il peso congiunto delle macerie proprie e dell'avidità dei suoi nuovi amici. Non è chiaro se Vladimir Putin ha capito, nel frattempo, che la guerra cecena, la seconda, quella che lo aveva portato al potere, non gh avrebbe portato fratti duraturi. Era servita per trovare un sostituto di Eltsin che non mettesse in discussione il potere degli oligarchi che avevano guidato Eltsin. Ma, simultaneamente, aveva aperto la strada all'oleodotto voluto da Washington - che portava il petrolio del Caspio da Baku a Ceyhan, bypassando la Russia. Era il 1999, quando sorgeva l'alba di Putin. Due anni dopo l'Asia centrale ex sovietica era in mano agli Stati Uniti. E il giorno stesso in cui il terrore mieteva di nuovo a Grozny altri cinquanta morti, alla fine del dicembre dell'anno scorso ad Ashgabat, capitale turemena, veniva firmato l'accordo per un un gasdotto di 1460 chilometri per portare l'energia dalle rive del Caspio all'Oceano Indiano, attraverso l'Afghanistan. Di nuovo taghando fuori la Russia. Quello che non era riuscito alle compagnie Unocall e Deltaoil con i taleban, era finalmente riuscito alle stesse due Compagnie con Hamid Karzai, nuovo presidente afghano, a riprova che la democrazia è, tra tutti i sistemi politici, il più efficiente in termini strategici. Quest'ultima catasta di giovani bare russe dovrebbe suggerire a Putin e ai suoi consiglieri di alzare lo sguardo sull'orizzonte. Circolano diversi progetti per demolire la Russia prima che - non si sa mai cambi idea. Il Cremlino deve decidere se partecipare a questa roulette russa, come vittima designata, oppure se cambiare gioco, e alleanze. Quale che sia la geografia di coloro che vogliono una Russia in pezzi, è ancora evidente che la sua distrazione potrà avvenire solo con il consenso delle élite russe. Che - a onor del vero - hanno finora dimostrato una tendenza alla resa che ha pochi precedenti nella storia. Il Paese è l'anelio debole dello schieramento occidentale Corruzione endemica polizia inefficiente esercito demoralizzato rendono possibile colpire con elevate probabilità di successo e un effetto assicurato sull'opinione pubblica internazionale Un agente esegue rilievi sul luogo del duplice attentato kamikaze