Il figlio violento della globalizzazione di Maurizio Molinari

Il figlio violento della globalizzazione UN SAGGIO PROVOCATORIO METTE IN GUARDIA DALL'ECCESSIVO SVILUPPO NEI PAESI POVERI DI DEMOCRAZIA Il figlio violento della globalizzazione Maurizio Molinari LA sovrapposizione fra mercato e democrazia in Occidente è il segreto della crescita mentre nei Paesi in via di sviluppo diventa ima miscela pericolosa, capace di innescare odio, pulizie etniche ed eccidi di massa. A sostenere la provocatoria tesi è Amy Chua, docente alla Law School dell'Università di Yale, nel suo World on Pire (Ed. Doubleday, New York, 340 pagine) nel quale esamina il fenomeno etnico-economico delle «minoranze dominanti sul mercato». Incrociando dati economici e notizie di cronaca, Chua - figlia di ima coppia di cinesi deUe Filippine - disegna con accuratezza la mappa geografica delle minoranze che detengono il potere di mercato sui diversi scenari: le comunità cinesi nel Sud-Est asiatico, i bianchi nell'Africa del Sud uscita dall'apartheid, i discendenti dei coloni europei in Paesi del Sud America come Bolivia è Venezuela, i commercianti di diamanti libanesi nell'intera Africa Occidentale, il popolo degli Ibo in Nigeria, i croati nella ex Jugoslavia e gli ebrei nella Russia post-sovietica. Le cause sono molteplici: istruzione, esperienza, capacità, processi sociali la cui origine si perde nei secoli passati. Ma la conseguenza puntuale è r«etnoviolenza» ovvero «l'uso della violenza da parte della maggioranza impoverita contro la minoranza etnica dominante». Le violenze di piazza contro i cinesi in Indonesia nel 1998 e nelle Filippine negli ultimi anni, la feroce pulizia etnica dei serbi contro i croati negli anni Novanta nei Balcani, il genocidio degli Hutu contro i Tutsi (minoranza dominante da 400 secoli grazie al controllo del commercio del bestiame) in Ruanda e l'antisemitismo dilagante in Russia fanno parte di un unico fenomeno, nel quale Amy Chua include anche gli attacchi terroristi fondamentalisti islami- ci dell'I 1 settembre 2001 contro gli Stati Uniti perché «l'America a livello globale è percepita come una minoranza economicamente dominante». L'autrice tiene a sottolineare che la tesi ha delle eccezioni - in Cina ed Argentina non esiste questo fenomeno - e che non vuole in alcun modo giustificare violenze, odi! e massacri etnici, ma piuttosto mira ad esplorarne la genesi per trovarne l'antitodo. Di certo ciò che favorisce l'etnoviolenza è la globalizzazione perché esporta al tempo stesso mercato e democrazia: mentre il primo rafforza infatti le «minoranze dominanti in economica», la seconda consegna il potere politico nelle mani delle «maggioranze impoverite». Quindi il contrasto si acuisce: da un lato cresce il potere economico dall'altro quello politico. «La globalizzazione ha portato al proliferare di leader populisti che sfnittano la situazione per scatenare odio etnico verso le minoranze dominanti» scrive la Chua elencando gli scenari: Indonesia, Sierra Leone, Zimbabwe, Venezuela, Medio Oriente, Russia. I contrasti prodotti dall'era della globalizzazione non sono dunque di classe ma etnici e per testimoniarlo Amy Chua narra una storia personale: l'omicidio della zia Leona avvenuto a Manila per mano di un filippino in cerca non tanto di gioielli e danaro in una delle Un'immaginPer evitaoccorresiano lengarantit zone più esclusive della città, ma di una «vendetta» contro l'agiatezza in cui vivono gli abitanti cinesi, a nome di quella miriade di filippini che abitano dentro le fogne o in discariche a cielo aperto. Si tratta di una dinamica che ha tre conseguenze negative. Primo: colpendo le «minoranze dominanti» si indebolisce il sistema economico nazionale, con conseguenze negative sulle prospettive di sviluppo. Secondo: spinge le stesse minoranze a proteggersi sostenendo democrazie imperfette come hanno fatto i cinesi appoggiando Marcos nelle Filippine, i libanesi schierandosi con Siaka Stevens in Sierra Leone e gli indiani con Arap Moi in Kenya. j* enza ssere icchezza Terzo: produce violenze e genocidi come quelli di cui si resero responsabili i serbi contro i croati e gli hutu contro i tutsi. Come uscire da questa spirale di odio? La ricetta che propone il libro parte dalla premessa che ciò che serve ai Paesi in via di sviluppo è «più mercato, più democrazia e meno violenza». Ma per arrivarci, disinnescando la mina dell'odio etnico, i passi verso mercato e democrazia devono essere ponderati, non affrettati. Per quando riguarda l'economia la strada è quella di un libero mercato che arrivi accompagnato da regole per la ridistribuzione della ricchezza: tassazione dei più abbienti al fine di dare garanzie sociali ai più poveri; regole antitrust per impedire che i monopoli dei grandi industriali schiaccino le piccole e medie aziende della gente comune; distribuzione dei diritti di proprietà sulle terre come sostenuto dall'economista Hemando De Sotò - o la possibilità da parte dei cittadini di acquistare azioni delle maggiori società pubbliche, affinché ne condividano le sorti, proprio come avviene oggi in Nordamerica ed in Europa. «Mentre in Occidente lo Stato sociale e le garanzie economiche servono per tutelare mino¬ ranza come gli indiani negli Stati Uniti, gli aborigeni in Australia o i Maori in Nuova Zelanda - scrive Amy Chua nei Paesi in via di sviluppo devono essere pensati e realizzati per tutelare le maggioran.ze dal fatto che, ad esempio, i ricchi non pagano quasi per nulla le tasse». Anche il percorso della democrazia deve avvenire a piccoli passi: affermare subito il principio che «decide la maggioranza dèi votanti» in società dove non si è mai votato significa far vincere i fondamentalisti islamici in Algeria e Robert Mugabe in Zimbabwe, il cui intento non è tutt'altro rispetto a garantire libertà di espressione e tutela dei diritti umani. «La democrazia deve arrivare assieme alle garanzie per il cittadino - si legge nell'ultimo capitolo - sia di tipo costituzionale per quanto concerne le libertà personali sia di tipo economico per quanto riguarda i diritti di proprietà». La globalizzazione ha bisogno di ammortizzatori per disinnescare le tensioni etnicoeconomiche frutto di processi sociali secolari: non può essere un'onda violenta che si abbatte improvvisamente sul Terzo Mondo gettando ovunque libero mercato e democrazia nelle loro versioni assolute e teoriche. Ciò che serve è un processo graduale per accompagnare l'avvento di riforme con la presenza di garanzie a tutela di tutti i cittadini. Può essere questa la ricetta per disinnescare l'etnoviolenza che sta incendiando il mondo dal crollo del Muro di Berlino nel 1989. Anche le «minoranze dominanti» però hanno un compito: non chiudersi a riccio nelle loro realtà privilegiate ma aiutare i più deboli con atti evidenti e riconoscibili capaci di attestare la lóro volontà «filantropica» di adoperare parte delle ingenti risorse che possiedono per aiutare la maggioranza. Per evitare l'insorgere deiretno-violenza occorre che i passi verso lo sviluppo siano lenti. Il libero mercato dovrà essere garantito dalla ridistribuzione della ricchezza j* Un'immagine del dramma della ex Jugoslavia