Nella Tripoli assediata «Qui ci sono solo neri e ormai niente arabi»

Nella Tripoli assediata «Qui ci sono solo neri e ormai niente arabi» IN VIAGGIO TRA I LUOGHI DI PARTENZA DEI DISPERATI Nella Tripoli assediata «Qui ci sono solo neri e ormai niente arabi» Il corso Fshleom collega la capitale alle periferie. Su questa strada i (pochi) libici dicono: «Guardate, anche noi come voi siamo vittime dell'immigrazione dal centro dell'Africa» reportage Guido Ruotolo inviato a TRIPOLI SCENE già viste negli Anni '80, in quel buco nero che si chiamava e si chiama Villa Literno, tra Napoli e Caserta. Lì, a pochi passi dal litorale domiziano, quella rotonda l'avevano ribattezzata la «piazza degli schiavi». Grappoli di «neri» dall'alba alla sera, appollaiati per terra, aspettavano all'incrocio che qualche «caporale» li portasse a raccogliere pomodori, per poche lire. Fshleom è un lungo corso che dal centro di Tripoli si perde nella periferia. Alle sette di sera è affollato da sagome nere, occhi persi nel nulla,, ragazzi accovacciati a terra con la schiena poggiata al muretto. E altri ancora seduti pericolosamente in bilico su precarissimi trespoli. Stanno lì e aspettano. Si offrono, offrono il loro lavoro e mettono in mostra, sul bordo del marciapiede, il loro campionario: attrezzi da idraulici, rulli di pennelli di imbianchini immersi nella vernice. E strani tondini di ferro tenuti insieme a mo' di tenda indiana. Alle sette di sera, la periferia di Tripoli assomiglia a quelle delle nostre metropoli «occidentali». Lo struscio di donne con il velo, i phone center, i supermercati affollati, gli scaffali pieni di mercanzie. E loro, i neri, gli emarginati, i senza tetto e i senza lavoro, aspettano. Sotto la grande moschea Ben Ashor, il funzionario ministeriale che accompagna il giornalista si gira: «Vuole vedere come è drammatica la situazione?». L'auto rallenta, i neri si alzano di scatto. Fanno per strattonarsi a vicenda, come in una gara a chi arriva prima a quell'auto che potrebbe offrire un lavoro. Capiscono che la Mercedes nera è una intrusa e tornano indietro. Da dove venite? «Ghana..». Stride quell'immagine del corso o avenue Fshleom, animata da questi fantasmi, e l'apparente opulenza della città. Strade larghe, palme, giardini, case, palazzine con le parabole satellitari, con le ventole degli areatori che girano a pieno regime. E negozi, merci, colori. Città normalissima, Tripoli. Almeno all'apparenza. Il bar, «il caffé con la schiuma», il kafetano bianco. Un somalo sofferente è abbandonato su una sedia a rotelle. «Italiano? - chiede un avventore -. Perché ve la prendete con noi libici? Che possiamo fare?». Tripoli, e poi c'è la campagna irrigata, il deserto, le città di mare. E' lì che si combatte e si annuncia un'altra guerra. Attratti come gli orsi dal miele degli alveari, loro, i neri, gli invisibili, gli indesiderati sciamano verso i porti, i litorali, alla ricerca di una imbarcazione. E' in questo momento che si consuma il loro passaggio dalla disperazione alla clandestinità, alla fuga che annuncia altre fughe, a un vortice che li trascina sempre più in fondo. Non sono, non devono essere tanti quelli che vogliono partire. Raccontano che diversi neri che stanno per salpare parlano l'arabo, il che testimonia di una loro lunga permanenza in quella terra, in Libia. Che oggi, però, non sembra più in grado di garantirgli la sopravvivenza o, almeno, la speranza per un futuro diverso. Lasciano la Libia e subito sono rimpiazzati da nuovi immigrati. Un turn over senza chances per nessuno/per quelli che restBTio.'per quelli che arrivano, per quelli che partono. L'altro giorno, il ministrò degli Esteri, Abdulrahman Shalgham, spiegando che questa presenza massiccia di immigrati - quasi due milioni su un totale di meno di sei milioni di libici rappresenta per il suo Paese «una catastrofe», raccontava di sé, del suo villaggio: «La mia oasi, cinquemila persone, si trova nel sud della Libia, al confine con l'Algeria. Provi a immaginare quanti sono gli immigrati in quell'oasi. Azzardi una cifra. Sono più di diecimila. La mia oasi, dunque, è abitata da quindicimila persone di cui diecimila imuiigxci,i. E quello che accade da me si ripete ovunque. I libici sono diventati minoranza anche a Gat, ai confini con l'Algeria, e nei centri ai confini con il Ciad sono tutti neri, non ci sono arabi, sembra di vivere in Nigeria o in Ghana». Nella denuncia del ministro Shalgham si coglie un malessere, una difficoltà. E forse sta in questo segnale di crisi la molla che ha portato Tripoli a rispondere positivamente alla collaborazione chiesta, dall'Italia. «A noi non interessa difendere le vostre coste, i vostri confini - spiegava l'altro giorno il ministro degli Esteri - per noi è urgente garantire i nostri confini interni, il deserto». E' quello che sostenevano anche i turchi, durante l'esodo dei kurdi verso l'Europa e, dunque, l'Italia. Loro, i turchi, pattugliavano e ave- vano, naturalmente metaforicamente, i loro cannoni puntati versò i confini interni, l'Iran, l'Iraq, il Mar Nero degli esodi di quelle popolazioni dell'ex impero sovietico e di quell'area turbolenta e tellurica della Mesopotamia. Così oggi la Libia appare stretta nella tenaglia tra le migrazioni che prendono il via dai paesi dell'Africa centrale e le fughe verso i confini con la Tunisia per imbarcarsi per l'Italia. E' come se si aprisse la valvola di una pentola a pressione. «Lo stesso problema che avete voi nei nostri confronti - ripeteva il ministro Shalgham - ce l'ha la Spagna con il Marocco. Eppure contro Rabat non c'è nessun embargo». E già, l'embargo. Anzi il doppio embargo nei confronti della Libia, quello europeo e quello dell'Onu. Vista da Tripoli, l'imminente missio¬ ne italiana del ministro dell'Interno, Beppe Pisanu, è importante. Rappresenterà più che il semaforo verde a una intesa operativa di cooperazione nel contrasto all'immigrazione clandestina, una iniziativa politico-diplomatica per convincere i diffidenti europei (Germania e Olanda in testa) a sospendere l'embargo nei confronti della Libia. Vista da Roma, la missio- ne libica del ministro Pisanu potrebbe deludere alcune aspettative. Gli elicotteri, i visori notturni, le motovedette - che i libici vogliono poter comprare - non sono stati neppure ordinati. Sarà un processo lungo, se tutto andrà bene passeranno ancora dei mesi prima che si concretizzi l'impegno a superare l'embargo e a rendere dunque operativo un sistema di controllo delle frontiere interne e marittime. E nel frattempo, il mare dell'estate è una occasione ghiotta per chi punta alla traversata. «Quelli che arrivano da voi - diceva l'altro giorno il ministro degli Esteri - rappresentano soltanto il dieci per cento di quelli che vogliono entrare in Italia. Gli altri, li blocchiamo noi». Sono ormai cinque giorni che non salpano i barconi con gli immigrati. Forse è vero che l'offensiva repressiva delle forze di polizia libiche a Zwara, gli arresti di un gruppo di trafficanti, ha assestato un colpo all'organizzazione. Non c'è da farsi illusioni, però. Per ora è soltanto una pausa. L'apparente opulenza della città, giardini, palme, palazzine con le parabole satellitari, stride con la visione di «fantasmi» in arrivo da Ghana e Nigeria in cerca di lavoro. E la gente del posto sbotta «Italiani? Ma perché ce l'avete con noi?» II colonnello Muhammar Gheddafi

Persone citate: Abdulrahman Shalgham, Beppe Pisanu, Guido Ruotolo, Muhammar Gheddafi, Pisanu, Shalgham, Stride