Africa, il guaio di non essere «nodi»

Africa, il guaio di non essere «nodi» NELL'ERA GLOBALE IL DOMINIO DEGLI USA SI MODELLA SULLA RETE Africa, il guaio di non essere «nodi» Giovanni De Luna ALLA fine del Novecento, Africa addio (il titolo di un vecchio documentario di Gualtiero Jacopetti) sembra racchiudere il senso della foiba in cui quel mondo è precipitato. La Somalia è un esempio di come uno Stato possa dissolversi nel nulla, lasciando riemergere le antiche fratture tra nomadi e sedentari (sì, proprio quella dell'alba dell' umanità), un pulviscolo di clan in lotta, un incredibile inventario di strutture statali smantellate e vendute pezzo per pezzo al peggior offerente, statue d'oro fuse a Abu Dhabi, industrie smantellate e vendute come metallo grezzo, prezzi stracciati in cambio di un permesso di soggiorno o un visto di ingresso (Nuruddin Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, 2003). La guerra in Somalia, sostiene Farah, è anche è soprattutto la certificazione del fallimento degli interventi militari organizzati dall' Gnu: la missione Restore Hope partì, nel 1992, con fragoroso clamore mediatico e grandi poteri, incluso quello di far uso della forza; ma i caschi blu, anche se ben armati, ebbero vita dura. Il 5 giugno 1993 gb sgherri del signore della guerra, Aidid, uccisero 24 soldati pakistani, il 25 settembre fu la volta di tre eheotteristi Usa, il 3 ottobre nella battagba per catturare lo stesso Aidid ci furono 18 americani uccisi, 73 feriti. Finirono il, nell'inferno di Mogadiscio, sia l'operazione Restore Hope sia le operazioni di peacekeeping gestite dall'Onu. La lezione della Somalia ebbe conseguenze gravissime per l'Africa, Niente e nessuno riuscì a fermare l'orrore totale del genocidio ruandese. Un libro agghiacciante per il suo contenuto, appassionato per l'indignazione che lo anima (Daniele Scaglione, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, RGA, 2003) ci informa ora dettagUatamente su quella tragedia. E qui l'Islam non c'entra per niente: il Ruanda è il paese più cattobeo dell'Africa. Tutto si consumò in 104 giorni: il 6 aprile 1994 morì in un attentato il presidente ruandese Habyarimana (insieme al presidente burundese Ntaryamira). Il 19 luglio seguente i tutsi del fronte patriottico ruandese, il Fpr, presero il controllo del territorio e formarono un nuovo governo. Tra queste due date furono ammazzati più di 500.000 ruandesi, con una media giornabera di 4.900: aba fine, risultarono assassinati il 770Zo dei tutsi del Ruanda e due miboni di ruandesi fuggirono nei paesi vicmi (prima i tutsi, poi gb butu per paura delle rappresagbe). Fu un massacro pianificato dall'alto (incluso l'uso del machete) dal governo butu, che attribuì alla lotta contro i tutsi i tratti smisti! dello sterminio di massa. Fu solo violenza tribale? Mah... C'è da dire che nel massacro spesso troviamo la morte coniugata con le forme grottesche di una modernità globabzzata: i più crudeli mibtanti delle squadracce butu venivano dalle curve calcistiche degb ultras, esattamente come nelle guerre civib jugoslave; la voce che incitava la folla butu ai linciaggi era quella del telecronista sportivo Kanano Habimana; gb appelb alla violenza venivano amplificati e ossessivamente diffusi dalle radio portatib in programmi di grande efficacia propagandistica (musica, stile informale, contatto con gb ascoltatori). L'Onu (il 5 ottobre 1993) mandò un contingente mibtare che comprenderà 2.548 soldati (942 del Bangladesh, 843 del Ghana, 444 del Belgio). Non servì a niente. Nel 1998 Clinton, a Rigali, chiese scusa. Oggi il comandante dei caschi blu, il generale canadese Romeo Dabaire, vaga in preda ai rimorsi, tentato dall'alcol, dilaniato dal rimpianto di non aver potuto fermare il massacro («non puoi allontanarti da tutto quel sangue, da tutti quei lamenti»). L'Onu falb perché gb Usa non volevano più ripetere l'esperienza somala e cominciarono abora a prendere le distanze dalle operazioni di peacekeeping che b avevano sempre visti in prima fila. Ma è tutto qui? No, perché da allora i progetti di dominio mondiale degb Usa cambiarono di segno. Proviamo a immaginare la globabzzazione come un fitto reticolo che si sovrappone e plasma il territorio; il sistema economico e pobtico si articola in reti lunghe fatte di autostrade, porti, aeroporti, interporti, borse, centri di ricerca e di sviluppo, ponti di comunicazione «che usano il territorio come porti da cui salpare per andare altrove, là dove più conviene». Un simile assetto non può tollerare grumi territoriab, enclaves che ostacolano il distendersi di reti funzionab che, attraverso la logistica, l'informazione e la finanza, tengono insieme i luoghi della produzione. Il dominio degb Usa si modella su questo assetto; è una rete, non un controllo omogeneo e capillare delle «zone d'influenza», come quello che caratterizzava le due superpotenze ai tempi della «guerra fredda». E di una rete si controllano solo i «nodi»: i Balcani, l'Afghanistan, l'Iraq sono «nodi»; Somaba, Rwanda, no. Per chi è fuori daba rete dell'tteconomia dei flussi» non ci si spreca più di tanto.