Il popolo BAMBINO

Il popolo BAMBINO PARTITOCRAZIA, STRAPOTERE DEI SONDAGGI, ASTENSIONISMO: LA MODERNA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE E MALATA Il popolo BAMBINO Michele Ainìs TL popolo inglese crede di ^ 1 essere libero» recita un celebre passo di Rousseau «ma si sbaglia. Lo è soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti esso diventa scbiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l'uso che ne fa merita di fargliela perdere». Dopo più di due secoli da questa critica al sistema parlamentare (la più radicale che sia mai stata pronunciata), la realtà è diventata anche più sconfortante di come Rousseau la dipingeva: oggi non siamo più liberi nemmeno il giorno delle votazioni. Non già perché un potere dispotico ci impedisca di votare: se è per questo, di elezioni ne abbiamo in calendario pure troppe. E semmai qua e là capita talvolta d'incontrare qualche bizzarra esclusione: in Italia è il caso dei falliti, cui una norma vieta di recarsi alle urne per i 5 anni successivi al fallimento. Né perché il nostro voto sia tradito; anche se con i ribaltoni, con i referendum violati (come quello del 1993 sul finanziamento pubbhco ai partiti), con le schede non contabilizzate (è il caso degli 11 seggi fantasma alle politiche del 2001), può succedere anche questo. Ma quanto vale l'espressione del voto individuale in un'epoca di sondaggi a getto continuo, che anticipano i risultati elettorali e al tempo stesso li influenzano? Come ha scritto Herstgaard, «500 americani vengono continuamente interrogati per dire a noi, cioè agli altri 250 milioni di americani, quello che dobbiamo pensare». Inoltre in un sondaggio (come in un referendum) chi formula il quesito è più determinante di chi deve rispondergli: ciò che conta infatti non è tanto la domanda in sé, bensì come viene posta. Basta infatti rovesciare l'ordine dei nomi per ottenere un esito diverso. Da un sondaggio del 1988 sui candidati alle presidenziah americane, emerse che quando il nome di Dukakis veniva menzionato per primo, il suo avversario Bush finiva sotto di 12 punti percentuali; invertendo l'oidine, lo scarto si riduceva a soli 4 punti. Inoltre il guaio è che di rado siamo consapevoli delle questioni su cui di volta in volta esprimiamo il nostro voto: ed è un guaio presso, perché mina alla radice le jasi sulle quali poggia ogni democrazia. Sta di fatto che la complessità del mondo in cui viviamo ha rovesciato il fondamento delle consultazioni elettorali: anziché «conoscere per poi deliberare», sempre più spesso ci troviamo a deliberare senza saperne nulla. Anche perché la comunicazione politica è costretta suo malgrado ad adottare tempi e linguaggi del mezzo televisivo, col risultato di ridursi il più delle volte a slogan, a spot pubbhcitario. Una ricerca sulle news televisive negli Stati Uniti ha dimostrato la progressiva erosione del tempo concesso ai candidati nelle varie toniate elettorali, ovviamente a tutto scapito dei contenuti del messaggio: nel 1968 la media individuale era di 42.3 secondi; sono diventati 9.8 secondi nel 1988,7.3 secondi nel 1992. Ecco perché un gruppo di studiosi americani (il cui capofila è James S. Fìshkin) ha elaborato la teoria della «democrazia deliberativa», proponendo di selezionare un campione rappresentativo di cittadini, di registrarne in prima battuta gli umori su questioni di grande interesse popolare, di sottoporlo poi a una serie di incontri e seminari d'approfondimento sugli stessi temi, e infine di ripetere il sondaggio sul medesimo campione die a questo punto risulterà davvero informato e competente, e potrà dunque fungere da bussola per le decisioni di governo. Dal tempo della sua prima concezione (nel 1988), il deliberative polling è stato sperimentato 18 volte in varie parti del mondo: in 10 casi negli Stati Uniti, 5 in Gran Bretagna, 2 in Australia, imo in Dani- marca. E con un'unica eccezione ha sempre fatto registrare imo spostamento d'opinione del 15-2007o fra il primo e il secondo sondaggio (e talvolta anche del 5007o); la prova provata, insomma, di quanto siano fragili le nostre scelte elettorali. E soprattutto la prova della nostra (incolpevole) ignoranza. Da qui il dominio sempre più incontrastato dei professionisti dell'urna elettorale (di chi vive della politica, non già per la politica), e in conclusione dei partiti. La «partitocrazia», insomma: tonni¬ ne coniato nel 1949 dal costituzionalista Giuseppe Maranini per indicare il feneo controllo dei partiti in tutti i gangli della vita politica organizzata, ma che o^gi - in Italia come altrove - si canea di nuovi significati. In primo luogo a causa della proliferazione di partiti «per¬ sonali», le cui fortune s'identificano con quelle del leader. In secondo luogo per l'eclissi del fenomeno che aveva contrassegnato il Novecento, ossia la militanza politica di massa, sicché attualmente i partiti sono come altrettante teste senza corpo. E così per esempio in Francia il numero dei militanti attivi è diminuito del 64,607o in un ventennio (dal 1978 al 1999); del 50,40Zo negli Stati Uniti; del 47,50Zo in Norvegia; e così via. Ormai privi di consenso popolare (nel 2000 un'indagine del Censis ha calcolato che soltanto il 4,40Zo degli italiani ne ha fiducia), i partiti non sono più i corpi intermedi destinati a fare da «ossatura politica» del popolo - come teorizzava Montesquieu - ma piuttosto corpi burocratici autoreferenziali, ancora più famelici e invadenti che in passato. Ne è prova lo spoils system, che dalle coste americane è approdato anche in Europa, e che in Italia ha sigillato la fedeltà dei vertici amministrativi verso i partiti di governo, con buona pace del principio d'imparzialità prescritto nelle tavole costituzionali; sostituendo così la vecchia pratica della lottizzazione, che se non altro finiva col premiare anche i dirigenti vicini all'opposizione. E soprattutto ne è prova la storia del finanziamento pubbhco ai partiti, che negli ultimi decenni si è diffuso nella legislazione di tutte le democrazie occidentali, con modalità decise dai partiti stessi, e con effetti di ulteriore concentramento di potere nelle loro mani, nonché nelle mani dei loro esperti e funzionari. Ma l'appetito non è mai sazio, come dimostra per esempio il caso della Germania (dove nel 2002 l'ottava legge di riforma del Parteiengesetz ha elevato l'entità del finanziamento pubbhco) ; quello della Gran Bretagna (dove in base alla riforma del 2000 bastano 2 seggi parlamentari perché scatti il contributo dello Stato); .e in ultimo il caso dell'Italia. Qui infatti, nell'estate del 2002, l'ennesima legge di riforma ha deciso di premiare anche i partiti che ottengono 1*196 alle elezioni (prima occoneva il 40Zo); ma soprattutto ha fatto lievitare l'importo dei contributi pubblici del 9680Zo negh ultimi dieci anni. Secondo l'Human Development Report 2002 delle Nazioni Unite, nel 1980 i candidati alle presidenziah Usa hanno speso 92 milioni di dollari; questa cifra è salita a 211 milioni di dollari nel 1988, a 343 milioni di dollari nel 2000. Mentre a sua volta Michael Bloomberg, candidato a sindaco nella città di New York, nel 2001 ha impegnato 74 milioni di dollari per la propria campagna elettorale. Ovunque, d'altra parte, s'infoltisce la schiera degli uomini d'affari che decidono di presentarsi alle elezioni. E di contro la qualità del dibattito pubbhco s'immiserisce progressivamente su temi che riguardano il passato remoto dei vari candidati, quando non il loro aspetto fisico: emblematica la polemica divampata in Germania prima delle elezioni del 2002, quando il cancelhere Schroederha citato in giudizio l'agenzia di stampa Dpd, die lo aveva accusato di tingersi icapelh. Sarà per questo, per il solco che si è via via scavato fra i cittadini e i loro rappresentanti nella roccaforte delle istituziom, che i primi appaiono sempre più disinteressati alle sorti della competizione elettorale. E infatti l'astensionismo è raddoppiato negh ultimi vent'anni, in Italia così come negh Usa o in Inghilterra. Sennonché dietro la diserzione delle urne, dietro l'eccesso di semplificazione del dibattito politico, dietro le mille frustraziom che 6i portiamo addosso quando assistiamo in qualità di spettatori al prima e al dopo di ogni tornata elettorale, c'è un pericolo in agguato: il populismo. Ossia la tentazione d'affidare i nostri destini al capo carismatico, die a sua volta d promette un rivolgimento esistenziale («ima vita più ricca, più febee, più piacevole e sicura per ogni dttadino», secondo lo slogan coniato dal People's Party nel 1894), facendo pulizia dei troppi congegni garantistid che ingombrano i sistemi democratid. E trasformandod perdo definitivamente in un popolo bambino: senza poteri, ma col sorrìso in bocca. micheleaìnis@tin.it Dalle elezioni ai referendum: il voto individuale è sempre meno «libero» Eil populismo in agguato rischia di trasformarci in masse sorridenti senza poteri «sovrani»

Persone citate: Bambino Michele, Bush, Dukakis, James S. Fìshkin, Michael Bloomberg, Rousseau