Fante: primavera è arrivata, finalmente è uno della banda di Claudio Gorlier

Fante: primavera è arrivata, finalmente è uno della banda Fante: primavera è arrivata, finalmente è uno della banda RECENSIONE Claudio Gorlier NON si capisce John Fante se non lo si legge alla luce delTitaloamericanità», avverte Francesco Durante nel suo esemplare saggio introduttivo al benvenuto «Meridiano» Mondadori dedicato allo scrittore. «Ma - assai opportunamente precisa - lo si capisce ancor meno se si assume l'elemento etnico come esclusivo, se si considera l'intera sua opera, ribollente distillato autobiografico, all'interno del paradigma etnico-familiare». Questa poderosa antologia, che raccoghe tutto il meglio di Fante, in parecchie traduzioni si giustifica in forza di una simile precisazione. Ma non dimentichiamo mai il debito nei confronti di Elio Vittorini che con Fante chiuse la sua leggendaria antologia Americana. Cerchiamo, dunque, di liberare dei luoghi comuni che ne hanno condizionato e limitato a lungo l'affermazione uno scrittore di non indifferente statura, pur con tutti i suoi limiti. Si badi: negli Stati Uniti Fante sta ricevendo soltanto ora, con molti se e ma, piena cittadinanza letteraria. Non se ne trova traccia nella più ricca e moderna storia letteraria, quella curata da Emory Elliott e pubblicata in Italia dalla Utet con introduzione di chi scrive. Storia della civiltà letteraria degli Stati Uniti, salvo che nella ricca bibliografia presente soltanto in questa versione; è assente in American Diversity, American Identity, a cura di John K. Roth, l'antologia a mio avviso più ricca e criticamente documentata che raccoglie ben 145 autori americani. La maledizione, è il caso di dirlo, che ha colpito Fante sta proprio nella difficoltà, o magari nella pigrizia, di descrivere la sua identità; consentitemi la perentorietà, la sua identità di scrittore americano. Fante non era in nessun modo un emigrato, ma un americano di ascendenza italiana nato nel cuore degli Stati Uniti, in Colorado, nel 1909. E allora, senza ignorare quella ascendenza, cerchiamo di comprendere la sua qualità di scrittore americano. Non a caso il giovane Fante si era rivolto a Henry Louis Mencken, uno dei pontefici riconosciuti dell'intellettualità americana, conservatore la sua parte, ricevendone consigli insolitamente benevoli da parte di un critico e teorico che aveva ormai dichiarato il suo scarso interesse per la letteratura creativa. Rammenta Durante che Mencken lo aveva invitato a non lasciarsi intrappolare dalle memorie famigliari, un rischio che Fante correva ma, almeno nelle sue riuscite più significative, si sforzò di esorcizzare. Vediamo il primo romanzo della saga incentrata sulla famiglia Bandini Aspetta primavera, Bandirli. Sappiamo dal primo capitolo che il dilenima tormentoso di Arturo Bandini sta nel non chiamarsi John di nome e Jones di cognome. Ora, lo specifico italoamericain non si presenta nei termini del feticcio e della evocazione nostalgica, ma nella sua «diversità» che l'America bianca, anglosassone e protestante, rifiuta o emargina. L'intera saga, del resto, con particolare rilievo, s'intende, per l'altro romanzo chiave di Fante, Chiedi allapolvere, nella sua rappresentazione del clan Bandini, con le sue contraddizioni, i suoi tormenti, i suoi sentimenti, persino le sue crudeltà più o meno involontarie e spesso subite, riscatta l'autobiografismo e l'ipoteca dell'etnicità per acquistare i caratteri di una narrativa peculiarmente americana. Le note di colore di matrice italiana appaiono occasionali, e spesso di impaccio. In realtà. Fante crea una sua dimensione, specie nel dialogo, di American English. Si conferma qui un'appartenenza insopprimibile ma inquieta, anche risentita, di un americano «altro». Sono andato a verificare sull'ultima edizione paperback, apparsa nel 2002 di Wait Until Spring, Bandini, gli intercalati o i termini italiani, corretti nella traduzione itahana. Sono spesso errati. Mamma mia è, nell'originale, costantemente mamma mio; si incontra una voltaputtana e un'altrapittana. Lo sforzo di Fante era quello di attingere all'oralità, la sua conquista e la sua dannazione. A somighanza di Cristo tra i muratori di Pietro Di Donato, meritoriamente riproposto dall'editore Corbisiero, l'oralità, trasformata sot- tilmente in scrittura, fu per così dire il marchio negativo di qualità che indusse il lettore, e spesso il critico, americano a ignorare o a sottovalutare scrittori come Fante. Notate : la stessa oralità funzionò perfettamente nel cinema (cui sono funzionali i roamnzi di Puzo), per Coppola o per Scorsese, De Niro e Pacino, perché si adattava al mezzo, qualificava personaggi spesso equivoci se non criminali. ma di singolare forza e, sia pure con mezzi perversi, di successo. Per il pubblico, questo andava bene. Specularmente l'affermazione dell'americano Sinatra derivò dal suo ripudio dell'etnicità. Soltanto quando autori di matrice itahana, da Ferlinghetti a DeLillo, hanno inventato una loro misura di scrittura e hanno pressoché abbandonato la memoria di un passato ancora vivo in Fante, è stata loro riconosciuta piena legittimità americana, come rileva Durante, finalmente oggi l'Arturo Bandini di Fante è «uno della banda». Ma leggete, o rileggete, il Fante della fase più tarda, poniamo l'autore di La confraternita dell'uva, e vi renderete conto della misura in cui Fante può rivendicare a pieno titolo il suo status. Ma notate l'attacco del quarto capitolo di Aspetta primavera, Bandini; «Niente Bandini, niente soldi, niente cibo. Solo se Bandini fosse stato a casa avrebbe detto "Fa' mettere in conto"». Il libro è del '38, e rivela la misura della fattualità caratteristica della narrativa americana del tempo; anzi, uno scatto che non ha nulla da invidiare, magari, a Steinbeck. O alcune pagine assolutamente memorabili del tardo H mio cane Stupido, in cui, attenzione, «stupido» è, nell'originale, in inglese, «stupida. Ancora, la chiusa del trentesimo capitolo di La confraternita dell'uva, con la morte del vecchio Nicholas Molise: «Mipunse una perfidia da scrittore. Pensai: quello non è il mio vecchio, quello non è il vecchio Nick, quello è Groucho Marx, e prima lo seppelliamo, meglio è». L'ironia grottesca sanziona un momento quasi disperato di perdita e sconsacra gli ipocriti rituali funerari con le parole di circostanza del prete, «Tutto qui, breve e dolce, un tiro e un centro». Non ci voleva proprio Bukowski, uno scrittore a mio avviso sopravvalutato e riscoperto a Parigi, per riscoprire Fante. Che andrebbe sottratto alle sottighezze degli accademici e riproposto, com'è ora il caso, rispettando la malinconia dei suoi ultimi anni testimoniata dalle dolenti postfazioni, e restituendogli il posto non indifferente che merita, americano dalla struggentemente ambigua, doppia identità. NEI MERIDIANI LO SCRITTORE DI ASCENDENZA ITALIANA: E' ORA DI RESTITUIRGLI IL POSTO CHE MERITA, AMERICANO DALLA DOPPIA IDENTITÀ, STRUGGENTEMENTE AMBIGUA Ornella Muti e Joe Mantegna in una scena del film tratto dal romanzo di Fante «Aspetta primavera. Bandirti» John Fante Romanzi e racconti a cura di Francesco Durante, Mondadori, t meridiani, pp. LXVl -1698, e 49 OPERE SCELTE

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