I cinema per Zavattini, a «non arte» che interroga la realtà di Cesare Zavattini

I cinema per Zavattini, a «non arte» che interroga la realtà I cinema per Zavattini, a «non arte» che interroga la realtà IL PERSONAGGIO Edoardo Bruno ATTRAVERSARE tutti i suoi scritti può servire a identificare una estetica? E' la domanda da cui ha preso avvio la mia relazione «Effetto Zavattini» alla Casa delle letterature, il 5-6 maggio a Roma. Direi che in Zavattini più che lo scritto la parola contrassegna la modalità espressiva per capire l'importanza, la spinta, che ha segnato la sua visione del neorealismo, l'impegno durante tutto un periodo storico del cinema italiano. In ogni caso Nel Neorealismo secondo me, relazione scritta, tenuta al convegno del neorealismo a Parma nel 1953, Zavattini avverte la necessità per il cinema di un impegno poetico ma precisa: «Poetico nel senso totale che mira a darci il maggior numero di informazioni possibih, un "poetico" dunque con tutti i canoni del più di informazioni e quindi un poetico in cui prevalgono le scelte di contenuto». Eppure dai suoi piccoli libri - Parliamo tanto di me, I poveri sono matti -, emergeva il non-senso, la letteratura (la liaison) del paradosso, la prosa bizzarra, il segno che dice e non dice e che parla attraverso la metafora e non l'informazione. Anzi la disinformazione era stata la sua cifra minimale. Al cinema Zavattini dopo la dimensione ludica del finire degli Anni Trenta, di Ti darò un milione di Camerini o di San Giovanni decollato di Palermi, con uno stravagante Totò, introduce nel dopoguerra la nozione del fatto del giomo, proponendo la notizia, il pedinamento, lo sguardo ma senza l'occhio futurista di Dziga Vertov, piuttosto con l'occhio già sperimentato di Leo Longanesi, come tecnica di una scrittura mimetica, poco creativa, dando avvio ad una sistemazione linguistica povera di invenzioni, in cui la jarola diviene battuta, perde 'estro e si irrigidisce. Il reale reale, un lessico più familiare, gli stessi giochi di parole, rivendicano al neorealismo il valore di una scelta assoluta che solo De Sica riesce a sciogliere poeticamente nei suoi film migliori. La vena che in Zavattini scrittore poteva definirsi d'avanguardia e che si confermava nei rapidi tratti geometrici della sua pittura, con improvvise rotture verso una fantasia espressiva, nel neorealismo piega verso un cinema di cronaca, in una ricerca quasi documentaristica. A proposito dell'avanguardia era stato Umberto Barbaro ad avvertire questo cambio di scelta a favore del documentario, scrivendo, nel 1939, in Film soggetto e sceneggiatura che «avanguardismo e documentarismo sono due aspetti conseguenti della primitività che non ha superato lo stupore per la potenza e la ricchezza dei mezzi meccanici del film», quasi lo stupore iniziale per la tecnica avesse poi in seguito lasciato interdetti di fronte ai problemi di costruzione di un nuovo linguaggio raffreddando gli slanci formali della fantasia, per un più facile riflesso mimetico del vero; e «come facile riprova, concludeva, sottolineando che una buona parte degli avanguardisti erano sboccati nel documentario, tipico il caso del Cavalcanti ora alla testa dei documentaristi inglesi». Discorso finalizzato a sottolineare l'importanza del momento poetico rispetto a quella che Barbaro definiva la «non-arte» e che in seguito ha ripreso nel dopoguerra e ampliato in vari scritti teorici - alcuni rivisti criticamente da lui stesso e raccolti in Poesia del film da me pubblicato nel 1955 - nei quali ssottolineava l'importanza nel film della parte dell'immaginazionecome il momento più alto della fantasia e della progettualità concettuale. Parlando in particolare di Zavattini Barbaro rilevava, dispiacendosene, come la vena poetica - intesa materialisticamente come poiesis - in lui fosse stata messa da parte per una serie dproposizioni normative intese a valorizzare troppo i contenuti. ' In uno dei primi fascicoli dfilmcritica, nel 1951, nello scritto Polemica col mio tempo che Zavattini ci aveva inviato su nostrrichiesta e che era il testo di unconversazione radiofonica tenutin quei giorni, per precisare la su«poetica», sosteneva che «il cinema ha lo scopo di farci vederquello che abbiamo davanti, hcioè la struttura tecnica più naturalmente coraggiosa. Non vuolpiù prendere uomini finti chsembrano, veri, ma uomini veriNon vuole neanche ripetere ciche è stato scritto, vuole solvedere la realtà davanti a sé perché c'è qualcosa di sfiduciato verso la vita tutte le volte che ripetiamo, servendoci della macchina da presa, ciò che abbiamo pensato». «Rinunciamo pure ai soggetti - concludeva Zavattini ma non rinunciamo all'inventario di quello che c'è intorno a noi; quanta bontà, quanta speranza, in quei cento metri da percorrere, niente meno la speranza di salvare il mondo, di trovare il segreto dei rapporti futuri tra noi. E' dunque un crimine rallentare o interrompere il viaggio del cinema italiano verso la realtà che lo attira, una realtà che quantitativamente e quahtativamente ormai non può essere che la realtà dell'umile Italia. Una volta un uomo passava lungo le strade e il suo grido notturno diceva: sono le nove, ricordati che devi morire. Il nuovo avvisatore dovrà gridare, in un cinema che rispondesse a questi interrogativi: sono le undici, gli analfabeti quanti sono in Italia? Sono le dodici, avete mai sentito parlare del delta padano?». Un cinema di interrogazioni e di risposte, che già in quel lontano 1951 non mi sembrava nella prospettiva di chi tentava, come noi, dando vita ad una nuova rivista, di ricercare forma nuove nella critica e nella semiotica. Il dialogo restava aperto pur nelle diverse posizioni e soprattutto le sue «battaglie politiche» non potevano non intrigarci e non trovarci d'accordo; il divario riguardava quel fare cinema che le nuove ondate in Francia, in Inghilterra come negli Stati Uniti, avevano cominciato a perseguire come cinema di tendenza, proprio partendo dalle prospettive aperte da Rossellini con Germania anno zero e Viaggio in Italia. In una lunga conversazione amichevole, avuta negli Anni 60 a casa sua, Zavattini con il suo slancio e la sua istintiva simpatia, sempre carica di intelligenza e di passione, mi diceva che non era d'accordo con Godard quando dichiarava di ammirare Rossellini e non il neorealismo. «D'accordo per Rossellini - precisava - sempre più simbolo di un quarto di secolo di cinema, però Godard è un neorealista. Si dibatte genialmente tra la metafora e il documento ma il suo cinema va sempre verso quello che definisco l'autobiografia, e diverrà sempre più il" suo film quotidiano, espressione di un cinema strumento». Ed in questo era veramente profetico. Cinema come strumento di conoscenza e di infrazione, dunque; tornava sempre in Zavattini questa ossessione per un cinema documento, registrazione anche di una nuova cultura del mondo, di sempre nuove realtà. Con questo spirito Zavattini è del resto protagonista nel 1968 con i cinegiornali studenteschi, con tutto ciò che aiuta a muoversi per guardare e capire. Il reale è sempre più reale, sempre più incardinato alle realtà nuove di un mondo nuovo ma il linguaggio cui si appoggia appartiene ancora alle vecchie tecniche del documentario e delle interviste. Il suo ultimo grido - quel film diretto da lui, quel film sognato e finalmente realizzato, alla fine dei suoi giorni, Verritààà - con le molte a che sospendono e cambiano di significato quasi a sottendere l'angoscia e l'impeto, l'urlo e il gesto metafisico non si libra poeticamente, resta inevaso, fermo nelle sue invocate contraddizioni; parafrasando Barbaro, potrei concludere «ancorato alla "non arte"». Cinquantanni fa o scrittore regista sosteneva una poetica che faceva prevalere e scelte di contenuto Cesare Zavattini

Luoghi citati: Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Neorealismo, Parma, Roma, Stati Uniti