Rolling Stones: il rock formato nostalgia, anzi vintage

Rolling Stones: il rock formato nostalgia, anzi vintage MICK E KEITH RICHARDS COMPIONO ENTRAMBI 60 ANNI, MA LORO E GLI ALTRI SONO TUTTI ABBASTANZA VISPI E ARZILLI DA TENERE SU UN CONCERTO PER DUE ORE Rolling Stones: il rock formato nostalgia, anzi vintage Venti canzoni, bis con Satisfaction, sotto una pioggia di coriandobni rossi Marinella Venegoni inviata a MONACO DI BAVIERA Il presente non è granché, dunque rifugiamoci nel vintage. Quella che si chiamava nostalgia e veniva in quanto tale Bollata e stigmatizzata, oggi sotto una più attraente definizione è incoraggiata in molti campi: e i Rolling Stones sono il vintage stesso del rock. Di attuale non hanno nulla se non il fascino della fama, dei miMardi e appunto di un ottimo repertorio d'epoca, mentre sul loro maledettismo ormai sghignazza l'anagrafe: ne sono tanto consci, da aver inciso l'anno scorso per i quarant'anni un album come «Forty Licks», cioè la loro storia più vibrante con appena un cucchiaino di non memorabili pezzi inediti. Portano il ed in tour dal 3 settembre 02 quando partirono da Boston, ma nel debutto della franche europea - l'altra sera dalTOlympiahaile di Monaco, con prossima tappa a San Siro martedì ma attenti: alle 20,30 precise - la scaletta s'è fatta più seppiata che in America, con un più massiccio ritomo alle radici blues che furono ragione e origine di quest'incredibile band. Un faretto illumina nel buio la giacca lilla di Keith Richards, chinato a suonare la chitarra appoggiata al giiiòcchio. .Ed !è subito eàplosione di suoni su «Street Fighting Man», anno di grazia 1968, bandita allora dalle radio perché invitava alla rivolta. Mick comincia a sculettare, impagabile professionista: per poi avvertire che «It's Only Rock'n'Roll» e non bisogna farla tanto lunga. Seguono rockaccioni come «If You Don't Rock me», e la pleonastica «Don't stop». La scena si riaccende per incanto con il blues: vintage puro davvero, con Ron Wood alla steel-guitar nella strappacuore «Love in vain» e Keith che si riaccende all'istante in ima serata in cui ha fatto più cinema che musica. Chissà cosa si sarà bevuto, ma è il suo bello, la discontinuità: è andare lì e sperare che sia nella serata giusta. Da qui alla fine della prima parte, siamo in pieno '69 con il longplaying «Let It Bleed»: «Live With Me», «Monkey Man», e una spettacolare «Midnight Rambler», dilatata, con Mick che si riprende di scatto da un momentaneo torpore (e si finisce per pensare: ecco da chi ha preso il Michael Jackson dei tempi mighori). Si resta in epoca con «Tumbling Dice» (72 ma più pop), prima che Keith irrompa come (molto improbabile, questa volta) cantante sohsta, con «SUpping Away» e «Before You Make Me Run». È la fine della prima parte, Mick si cambia dietro il portastrumenti. Contro i Beatles più «cremini», passati alla storia per decimazione dei componenti, gli Stones che nei '60/70 rappresentavano la trasgressione vera e sporca e rock, e hanno avuto due morti in casa (Brian Jones e lan Stewart), e in quanto a stravizi sono stati dei modelli pesanti, sono ancora qui a ripetere il ruolo che li ha consacrati: abbastanza vispi e arzilli da tenere su un concerto per due ore. Watts è del '41 ma resta un impassibile metronomo (favorito anche dal fatto che lavora seduto); Ron Wood è del '47 ed è un mezzo catorcio, anche se ci è parso più tonico e presente che a Boston, grazie all'ultima cura disintossicante; Mick Jagger e Keith Richards compiono entrambi quest'anno (il primo il 26 luglio, il secondo il 18 dicembre) i sessant'anni che nel fisico smilzo non gli daresti mai. Guardandoli viene spesso da chiedersi se davvero si divertano ancora, e quanto giochino a fare la caricatura di se stessile se non vivrebbero meglio senza questo dispendio di adrenalina: curare gli orfani, per esempio? Però è indubbio che con loro non funziona il chché della terza età: sono delle specie di alieni che fanno categoria a sé, rappresentano il sogno insano dell'eterna giovinezza del rock; ma hanno popolato il palco di ormoni musicali: il coro, quattro fiati fra i quali il supremo sax Bobby Keys, il bassista Darryl Jones e il tastierista Chuck Leavell. Inevitabilmente, il sound Stones si altera o si vivifica, se loro tornano o spariscono. Saggiamente, hanno disegnato la scaletta in sabscendi, per consentire a Mick qualche momento di riposo dal suo inesausto tipico ballonzolare sulla punta dei piedi, mentre incita le folle. I circa 12 mila di Monaco erano per metà coetanei e per metà giovani curiosi dell'evento, e quel gran stramazzo di salti proprio non c'è stato. Ma qualche momento di entusiasmo verace, sì. Quando Keith si schioda da sohsta, parte «Start Me Up» al fulmicotone, ma poi «Can't You Hear Me Knocking?» diventa una suite infinita puro stile '70, fra fischi e applausi, con Mick all'armonica e i due maestri chitarristi che ci echeggiano il Santana doc. Mah. Ci vuole «Honky Tonk Woman» per tornare agli Stones: e qui, e in «Jumping Jack Flash», Keith suona davvero. Subito dopo la band si avventura nel piccolo palco copiato dagli U2, al centro del parterre. Da lì, riecco: il benedetto blues di «Mannish Boy», di padre Muddy Waters, un bel r'n'r' in «Neighbours», una «Brown Sugar» alla quale il sax toghe ogni benedetto torpidume. Il bis sarà solo «Satisfaction», sotto una pioggia di coriandoloni rossi. Venti canzoni in tutto, rispetto a Boston ce ne hanno fregate 2. La pressione era bassa, ma stasera allo stadio si rifaranno; e a Milano sarà meglio ancora. Speriamo, speriamo. I RolIngStones: sul loro maledettismo ormai sghignazza l'anagrafe. Ne sono tanto consci, da aver inciso l'anno scorso un album come «Forty Licks», cioè la loro storia più vibrante

Luoghi citati: America, Boston, Milano, Monaco