Alpino «cronista» del mondo, tra picari, anime perse, vu/de d'ira

Alpino «cronista» del mondo, tra picari, anime perse, vu/de d'ira Alpino «cronista» del mondo, tra picari, anime perse, vu/de d'ira Bruno Quaranta SAPEVA che cos'è un romanzo, Giovanni Arpino, perché aveva calato il poker d'assi nel braidese caffè Boglione, e soppesato l'omerico polso di Augusto Manzo, re del pallone elastico (e della Langa), e viaggiato sui treni «cavalli otto e uomini quaranta» stracolmi di operaicontadini. Lo sapeva, che cos'è un romanzo, perché aveva identificato nei muscoli di Cassius Clay le stimmate di Madre Africa, e risalito il Friuli in frantumi, e «auscultato» il cuore di Enzo Majorca nelle profondità marine. «La crisi del romanzo è vera perché comincia dalla vita», insegnò Guido Piovene. E Giovanni Arpino (che sarà ricordato dalla Fiera sabato 17) assentiva e di conseguenza agiva, come i verbi «plastici» che via via convocava: tentò, rise, tuonò, farfugliò, sbigottì...Nella poesia di Herbert (fu tra i primi a nominarlo in Italia) scovò la definizione che più gli si addiceva: «Hanno avuto la bontà d'assegnarmi il ruolo minore di cronista». Scelse questo verso come epigrafe di «La trappola amorosa», l'estrema prova. Scegliendolo, si riallacciò alla lezione dei maestri ottocenteschi - Balzac e Flaubert, Zola e Maupassant e Gogol -: «E' a lei che deve tutto la storia che nasce e che cresce. E' un luogo del tutto e perfettamente umano. E' la nuda e sovente scostante - proprio perché nuda verità. E' quel che dice Machiavelli: "Gli uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio"». Discende per li rami della cronaca, Giovanni Arpino, «vittima di ogni attualità possibile», come si descrisse, sia (fosse) l'attualità uno sfregio me- tropolitano o un'invenzione di Platini o la bistecca sintetica. E' un frammento di cronaca (privata, avvolta nel massimo riserbo subalpino, custodita in una mansarda fra le nebbie della Torino precollinare) a ispirare «La suora giovane», il suo capo d'opera, fine Anni Cinquanta, da Einaudi, in copertina uno scapigliato Spazzapan. Da una confessione di Mino Rosso, pittore del secondo futurismo, si era dipanata la liaison fra Serena, la novizia, e il ragionier Antonio Mathis, di sguardo in monosillabo, di attesa in scorticamento. Il seme della cronaca. Nella «Nuvola d'ira»: gli operai che annunciano il Sessantotto, e, del Sessantotto, il supremo incubo, il privato sottomesso al totus politicus. Nel «Delitto d'onore»: l'anatomia di un anacronistico costume, il vuoto poetico intomo al legislatore che si ostinava a riconoscerlo. Nel «Fratello italiano» (premio Campiello 1980): il cancro droga, un lugubre balletto di larve, il patto violentemente umano di due padri straziati. Nel «Passo d'addio»: l'urgenza di «una fine degna», di «una scelta conclusiva dettata dall'intelletto, dall'amore, dalla coscienza del dolore, e non dalla cecità del caso». Di storia in storia, un'impavida testimonianza letteraria - altro, per esempio, l'occhio sociologico o ideologico -, tanto più preziosa quanto più è vero che a renderla era uno scrittore antiletterario, insofferente dei grilli proustiani, picaresco, devoto all'avventura (la Resistenza, la guerra civile, intesa, alla maniera di Fenoglio, come una pagina corsara: «L'ombra delle colline», premio Strega 1964, docet), ringhioso (non era un randagio eroe?) verso i cani da salotto. Come felicemente osservò Geno Pampaloni: «Lo scrittore antiletterario trova religiosamente la salvezza nella testimonianza letteraria». Una fedeltà alla Parola incorrotta (c'è in Arpino una nitida nota moralista), sino ad avvertire negli «scricchiolii della carta sotto il pennino l'ultimo gracile suono di vita tra tanto morire». Fu Eugenio Montale, letto «Un delitto d'onore», a coniare il giudizio critico intonato a Giovanni Arpino (intonato perché di lega non accademica): «Il fatto è che i suoi libri si fanno leggere e si ricordano». Anche perché li abitano (li innervano) figure sapientemente sbalzate, necessarie, tagliate in un legno unico. Non a caso, l'artefice del favoloso Domingo e dell'anima persa e del capitano cieco di «Il buio e il miele» (interpretato, per lo schermo, da Vittorio Gassman e da Al Pacino) non ignorava la verità di Stendhal: «Nel romanzo le vicende non significano niente, commuovono e basta; poi si dimenticano. Ciò che invece bisogna ricordare sono i caratteri». «Bracconiere di caratteri», si considerava Arpino, autore in cerca di personaggi allergici ai viaggi nel tempo canforato. «Non si può definire romanziere - stabilì - chi, inventando, evita di scontrarsi col mondo in cui viviamo». Non esitava a togliere il saluto a coloro che «fuggono nei secoli andati o si precipitano in quelli futuri o insistono coi loro mesti rintocchi da pieve antica». Era «l'inferno umano» la riserva di Arpino («L'unico vero inferno è il presente, miserabile e però insostituibile»). Tra Dostoevskij e il magnifico Landolfi, di cuore di tenebra in cuore di tenebra, la consapevolezza che il romanziere padrone di ogni cosa è un reperto ammuffito, che al romanziere del nostro tempo - saliti sul trono i mass media - «rimane il nodo più difficile, quello dell'animo umano», le anime ardite di baudelairiana memoria. Visionario del reale, Giovanni Arpino, sin dalla «Suora giovane» («naturalistica fetta di vita» e, insieme, «sapiente pittura astratta», chioserà Montale). Ebbene: visionario del I reale, quindi testimone privilegiato di una città magica come Torino (le autentiche magie, «aguzze e sfidanti in una Mole, ritorte e veementi in certi cavalli trionfanti o feriti che popolano le piazze - gli spazi che sedussero De Chirico e diventarono, grazie a lui, il prototipo d'una moderna, assoluta concezione dell'esistenza»). Torino come fiato del mondo, mille volte attraversata fustigando le sirene gianduiesche, ora, Torino, «imprendibile e assente» come una divinità, ora immisericordiosa, ora teatro «di sangue sparso e continua sfida», ora balsamica come un'oncia di barolo chinato. Un verso di Cardarelli era caro a Giovanni Arpino, a Giovanni Arpino affine, e allo spirito, alla indigena (torinese e piemontese) necessità di chinarsi e creare, macchine, opinioni, tessuti, vino, riso e, va da sé, romanzi: «Ti fu solo di scorta il tuo valore». IL RICORDO l&Séi stato felice, Giovanni». flJSSUò di Giovanni Arpino (Pbla 1927-Torino 1987). Acura di Fiera del libro. Introduce Giovanni M. Paviera. Intervengono: Bruno Bernardi, Roberto Cerati, Guido Davico Bonino, Gipo Farassino, Ernesto Ferrerò, Nlco Orengo, Gian Paolo Ormezzano, Massimo Romano, Massimo Scaglione, Armando Torino. Conduce Bruno Quaranta. a Tra le opere di Giovanni Arpino ' disponibili In libreria: «La suora giovane, «L'ombra delle colline» e «Un delitto d'onore» (tutti e tré i romanzi da Garzanti), «Un'anima persa», «Randagio è l'eroe» e «Gli anni del giudizio» (Marsilio), «Il primo quarto di luna e altre storie» (La Stampa), «Nel bene e nel male», antologia di articoli per «La Stampa» (La Stampa), «Il buio eli miele» (Baldini a Castoldi), «Raf è e Microprede» (Garzanti Scuola).

Luoghi citati: Arpino, Friuli, Italia, Torino