Una bambina in fuga nella tragedia armena di Flavia Amabile

Una bambina in fuga nella tragedia armena UN LIBRO AL GIORNO Una bambina in fuga nella tragedia armena Flavia Amabile ANNA Frank aveva 13 anni nel 1942 quando i nazisti iniziarono ad accanirsi contro gli ebrei di Amsterdam. Spostate l'orologio indietro di un quarto di secolo fino al 1915. Alle divise dei nazisti sostituite quelle dei turchi. Al paesaggio mitteleuropeo della capitale olandese sostituite le immagini della campagna ai confini tra Europa e Asia. Aggiungete anche alcune figure di secondo piano come i curdi, oggi considerate vittime della tirannia di Saddam e dei turchi, ma allora ben decise a svolgere il ruolo opposto, prestando tutto il loro aiuto nel saccheggiare, stuprare e dare vita al primo genocidio della storia, quello del popolo armeno. Avrete la storia di Varvar, «scintillante», una bimba come tante nell'Anatolia di quell'epoca, abitata in gran parte da armeni. Varvar ha sei anni quando i soldati turchi nel 1915 irrompono nella quiete della sua vita di Ulas, il piccolo paese dove abita con la lamiglia. Le portano via il padre che non rivedrà mai più e costringono lei e le altre donne e i bambini del paese ad abbandonare tutto ciò che hanno e mettersi in marcia verso il nulla. Si chiama deportazione, àksor, come la bimba sente urlare dalla madre e dalle donne al momento dell'arrivo dei soldati turchi, una parola che conoscevano bene in paese: «a ogni nuova generazione di armeni si ripeteva la stessa cosa», ricorda Varvar in quello che oggi è un libro che racconta la sua storia, raccolta attraverso le lettere inviate alla figlia Alice Tachdjian molti anni dopo, quando Varvar è una madre e una nonna che vive a Parigi e Alice una donna felicemente sposata con un pittore italiano, in quel di Bagnacavallo di Romagna. Varvar fa parte dei fortunati, coloro che in quel terribile 1915 persero soltanto la casa, i beni e molti cari, ma riuscirono a salvarsi. Un milione e mezzo di armeni non ebbero altrettanta fortuna, alla fine della deportazione trovarono la morte nei deserti della Mesopotamia. Varvar sta per incamminarsi verso quella stessa direzione quando un mattino, dopo 110 chilometri di marcia a piedi, 110 chilometri di fame, stenti, orrori, si accorge all'improvviso che la carovana dei profughi si sta mettendo in cammino senza di lei, senza la zia, i cugini. Vede la madre allontanarsi, tenta di chiamarla. «Mairig», grida, poi spinge la zia. La zia invece la conduce verso la direzione opposta mentre la madre va via senza di lei. Non lo sa ancora, lo capirà molto tempo dopo, è in quel momento che si decide la sua salvezza, ed è la madre a regalargliela, restando assieme alla colonna dei deportati e coprendo la fuga di Varvar e dei pochi altri membri della famiglia rimasti ancora vivi. A offrire loro un rifugio è una famigha di turchi. Gli armeni però vengono convertiti alla religione musulmana, e Varvar si ritrova ribattezzata con il nome di Sultana. Il seguito della storia è un lento e travagliato avvicinarsi alla salvezza, tra fughe e trasferimenti verso mete sconosciute fino ad arrivare a Marsiglia e poi a Parigi, dove infine ritrova una sorella. La accoglie con queste parole: «Ora devi pensare a sopravvivere. Cerca di dimenticare, perché, se ricorderai, non potrai più campare». Alice Tachdjian Pietre sul cuore Duri,, iti Van.tr, nn.l lunjJ/iu.i tnmpau ai griMriilio ilpxlì annttH Alice Tachdjian (a cura di) Pietre sul cuore - Diario di Varvar Sperling Si Kupfer PP.X//-798, «75

Persone citate: Alice Tachdjian, Kupfer, Sultana

Luoghi citati: Amsterdam, Anatolia, Asia, Bagnacavallo, Europa, Marsiglia, Mesopotamia, Parigi, Romagna