Andreotti, la Corte d'appello conferma l'assoluzione
Andreotti, la Corte d'appello conferma l'assoluzione UN'OMBRA SUL PROSCIOGLIMENTO: APPLICATA LA PRESCRIZIONE ALL'ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE Andreotti, la Corte d'appello conferma l'assoluzione giudici di Palermo fanno cadere l'accusa di associazione mafiosa Lino Abbate corrispondente da PALbRMO La seconda assoluzione è arrivata, ma il dubbio resta. Se in primo grado Giulio Andreotti è stato assolto dall'accusa di associazione mafiosa con la formula dubitativa, adesso questo passaggio è confermato dalla Corte d'appello, che tuttavia sul proscioglimento del senatore a vita aggiunge un'altra ombra, quella della prescrizione di un reato che potrebbe essere stato «commesso fino alla primavera del 1980». Andreotti, dunque, è stato assolto per la seconda volta dall'accusa di associazione mafiosa. Dopo nove ore di camera di consiglio, la prima sezione penale, presieduta da Salvatore Scaduti, ha però «parzialmente riformato» la sentenza emessa dal tribunale il 23 ottobre 1999. Per i giudici, infatti, non si deve procedere nei confronti del senatore «in ordine al reato di associazione per delinquere». Imputazione per la quale in primo grado era stato assolto. La lettura del dispositivo è durata due minuti. Due minuti di silenzio, in cui accusa e difesa, giornalisti e telecineoperatori, hanno tenuto il fiato sospeso dopo che il presidente ha subito pronunciato la parola ««in parziale riforma», che significa la modifica della sentenza precedente. E fino alla fine della lettura Scaduti non ha mai pronunciato la parola «assoluzione». Tutti con il fiato sospeso, fino a quando l'avvocato Giulia Bongiomo, difensore di Andreotti, rivolgendosi alla Corte gli ha gridato: «Lo avete assolto, lo avete assolto». Il presidente Scaduti l'ha guardata con stupore, e poi ha dichiarato chiuso il dibattimento. Il passaggio del dispositivo sul reato prescritto ha creato qualche titubanza fra i difensori. Secondo il professore Franco Coppi, legale del senatore a vita, per capire le ragioni della prescrizione pronunciata dalla Corte «bisognerà attendere le motivazioni». Il penalista non si sbilancia e preferisce attendere i motivi del verdetto per comprendere come mai i giudici di appello hanno considerato prescritte le accuse avanzate contro l'imputato per i suoi presunti rapporti con Cosa Nostra fino alla primavera del 1980. In primo grado i giudici avevano assolto il presi-» dente Andreotti da tutti i capi di imputazione, applicando il secondo comma dell'articolo 530, che obbliga il giudice ad assolvere quando la prova manca, è insufficiente o contraddittoria. Un distinguo fastidioso, notato anche dal collegio difensivo. L'avvocato Gioacchino Sbacchi, è soddisfatto: «Anche se questo distinguo operato dalla Corte mi lascia l'amaro in bocca». La foga di Giulia Bongiomo non si placa e la riversa sul cellulare con una telefonata al senatore Andreotti. Anche a lui grida «assolto, assolto». E poi giù con le dichiarazioni. «Dopo la sentenza di Perugia - dice Bongiomo - questo verdetto è la prova che i processi con i pentiti vanno fatti a Palermo e cioè dove chi giudica capisce cosa sono i pentiti e come valutarli, capisce cioè se sono ex delin¬ quenti e non si fa abbindolare. Facciamoli a Palermo i processi di mafia e non a Peragia». Sono due i testi nuovi citati in aula nel processo d'appello a carico di Giulio Andreotti: il collaboratore Nino Giuffrè, e il consigliere politico di Provenzano, Pino Lipari, ritenuto inattendibile dal a Procura e citato dalla difesa, ma le loro dichiarazioni non sembrano, ad una prima lettura, aver influito sul giudizio di appello. Il pentito Nino Giuffrè con le sue accuse contro il senatore a vita aveva confermato quanto detto dagli altri collaboratori di giustizia sul ruolo di «cerniera» che sarebbe stato svolto da Salvo Lima, i cugini Salvo e Vito Ciancimino, «mediatori tra i boss e la politica romana». Ma ciò non sarebbe bastato ai giudici di secondo grado. Giuffrè non avrebbe portato un contributo maggiore alle accuse che la Dda aveva in passato raccolto con altri pentiti. Di contro. Pino Lipari, che aveva offerto la sua collaborazione alla procura poi rifiutata dai pm perché ritenuta «non genuina», è stato il teste utilizzato dalla difesa, che lo ha citato in aula. Lipari si accredita come il consigliere politico di Riina e Provenzano, sostiene di essersi occupato solo di piccole cose, per conto dei corleonesi, e si attribuisce il ruolo di mediatore tra le «famiglie» e Vito Ciancimino. L'aspirante pentito ha sostenuto che Riina non si sarebbe mai fatto accompagnare da Balduccio Di Maggio ad un incontro con Andreotti, quello del bacio per intendersi, «ma avrebbe portato lui (Lipari ndr)». La gioia dei difensori attenuata dal giudizio sui rapporti fra Cosa Nostra e il senatore a vita prima del 1980 «Ma per capire le ragioni della pronuncia bisognerà attendere le motivazioni della sentenza»
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