VIEIRA Razionalità e sentimento

VIEIRA Razionalità e sentimento VIEIRA Razionalità e sentimento LA mia erudizione, la mia conoscenza, la costruisco attaccando un pezzo di spago a un altro pezzo di spago, poi ancora un altro pezzo, tutti i tipi di spago, poi i nodi si annodano dentro di me». Annodare, annidare. Perché questo era per Vieira da Silva il ruolo imprescindibile d'una tecnica infallibile, preparata: «La tecnica, il mestiere sono il nido che bisogna allestire per mettervi dentro "qualcosa"». Qualcosa che nasce, d'imprevedibile, dentro il lievitare della pittura. «Ouando in una delle mie tele c'è dentro un viso, una silhouette, un personaggio, non sono mai intenzionali. Sono loro che si impongono. Posso solo liberarli, lasciare che si mostrino, farli entrare». L'ospitalità conturbante e coinvolgente della pittura. L'artista portoghese Vieira da Silva non faceva mistero della sua altissima auto-considerazione di artigiana della metafìsica. Usava, autenticamente modesta - la modestia che LA MDESETTIMarco soltanto l'intelligenza può esperire - dei mezzi molto bassi, molto vili, come lo spago della metafora, od una pennellata esitante, ma per annodare anelli ben più profondi, alti, solenni. Quelli che guidano alla conoscenza incolmabile dell'Essere: al reticolato sfuggente delle cose (non a caso apprezzava Morandi). Perché c'è sempre questo strano commercio, specchiato, tra razionalità e sentimento, nelle sue fughe di stanze, nel suo svariare di nuvole geometriche, nel suo bruciare ventoso di scheletri di metropoli. Tralicci delle emozioni svaganti. «Pare ti di vento», come ha intuito bene il poeta Bernard Noel, uno dei tanti letterati, con René Char, sedotti dalla sua liricissima architettura friabile, in polvere. Sono labirinti STRA A ANA allerà senza muratura, ottovolanti molli, senza più fili d'Arianna, quelli di Vieira da Silva, ove si aprono continuamente porte d'aria, che non hanno cerniere e che, passando, c'impediscono di passare. Losanghe, filamenti, bave, congegni elettrici e circolazioni sanguigne, reticolati valicabili, geometrizzanti vie lattee, che non catturano il nostro sguardo, strangolandolo, ma lo cullano nelle spire di amache ottiche, che non conoscono rcefuie. La sua natura lusitana, la saudade d'ogni struttura fissa, solida, fa di questa artista nata a Lisbona nel 1908 e vissuta tra Parigi (accanto al marito pittore ungherese Aipad Szenes) e il Brasile (in esilio dalle dittature europee) una perfetta discepola di Pessoa, di Torres Garda, di Borges (il suo catalogo pullula di biblioteche in fiamme, di città immaginarie e pneumatiche, di stanche maree, che non hanno nemmeno la forza di lasciare dietro di sé la coda di pavone dei relitti oceanici). Rispetto all'astrattismo sia pure libero e respirante di certi italiani, come Soldati o Licini, Vieira ha qualcosa ancora di più labile, di più incerto,di più angosciato: «Tutto ciò che è reale, che è stabile è falso». Ma c'è anche una gentilezza nativa, tenera, in questa accogliente maestra dell'astratdsmo, che rinnega il calvinismo del rigore neoplastico di Mondrian, per imbandire una pittura-trappola, una cataratta (anche in senso oculistico) dello sguardo pittorico. Che fa dell'occhio dello spettatore il vero protagonista. «Se ho utilizzato i quadrettini, questa prospettiva vacillante, è perché non vedevo l'interesse di seguire Mondrian o altri. Volevo che la gente venisse, che partecipasse al gioco, che passeggiasse, salisse. scendesse». È come se il noioso geometrismo op di un Vasarely si enfiasse, si storpiasse, si tendesse sino allo spasimo, permettendo ai nostri occhi di festeggiare dentro la tela un pie nic disinvolto e riumanizzante (e quanto di Vieira c'è in quella sottoveste grafica di Gastone Novelli!). Perché l'ansietà di questo gioco di prospettive a ragnatela è sempre leggera, gioiosa. «Un quadro deve assomigliare a una persona. Sarebbe necessario che chi lo guarda si trovi davanti ad un essere che gli tenga compagnia, che gli racconti delle storie, che gli doni delle certezze. Perché il quadro non è l'evasione, deve essere un amico che vi parla, che scopre le ricchezze in voi e attorno a voi». La pittura di Vieira da Silva, ed è lei ad ammetterlo, irradia luce ed energia anche dopo esser stata «gettata via», al cimitero degli occhi, come una radio usata, che continui a trasmettere messaggi sonnambulici. E sono spesso illuminanti, dall' interno di queste città sospese sul filo di un'acrobazia anoressica, i titoli di certe opere : Dialogo sull'esistenza. L'entrata al Castello (come in un omaggio a Kafka), Itinerario ineluttabile. Le irresolutezze irrisolte. Come se i Costruttori di Léger avessero perduto la loro fiducia positivista, come se i ballerini di Severini avessero sgarrato il loro ritmo, come se certi titoli di Klee avessero trovato il loro approdo. E la melodia inceppata avesse ripreso. Perché questa musicista e patita di Bach, che aveva scelto di dipingere, perché almeno «nella pittura la goffaggine è possibile» (e però non sapeva ben distinguere: «perché a volte non sono molto sicura se ascolto o se vedo») resta una virtuosa di musica da camera, ma dipinta. E bisogna rendere merito a Sandro Parmiggiani di averla resuscitata, in questa bella mostra, con vario catalogo Skira, che si ricongiunge alla retrospettiva pionieristica, voluta da Luigi Carluccio, a Torino, nel 1964. Maria Helena Vieira da Silva. Il labirinto del tempo. Reggio Emilia. Palazzo Magnani. Tutti i giorni. Chiuso il lunedì. Fino al 25 maggio 2003 A PALAZZO MAGNANI DI REGGIO EMILIA UN OMAGGIO ALLA GRANDE ARTISTA PORTOGHESE, MAESTRA DELL'ASTRATTISMO, CHE PENSAVA I QUADRI COME «AMICI» LA MOSTRA DELLA SETTIMANA Marco Vallerà

Luoghi citati: Brasile, Lisbona, Parigi, Reggio Emilia, Stra, Torino