Quando Milano dichiarò guerra al «porto delle nebbie» di Paolo Colonnello

Quando Milano dichiarò guerra al «porto delle nebbie» L'ODISSEA DI UN PROCESSO LUNGO OTTO ANNI Quando Milano dichiarò guerra al «porto delle nebbie» Conti alle Bahamas, ricevute svizzere, intercettazioni. Ecco perché l'accusa ha sostenuto di aver raccolto prove «che superano ogni ragionevole dubbio» la vicenda Paolo Colonnello MILANO LI ULTIMO colpo di scena di questo processo, forse, si dovrà ancora scrivere e si giocherà probabilmente lontano dal palazzo di giustizia milanese. Ma intanto da ieri sera, esiste un primo punto fermo, una prima certezza. I conti scoperti alle Bahamas, le ricevute bancarie svizzere, le impressionanti coincidenze tra spostamenti di denaro e passaggi giudiziari: «macigni» li ha chiamati nella sua requisitoria dell'ottobre scorso, il pm Ilda Boccassini. Prove pesanti, «indizi gravi, precisi, concordanti» a rigore di codice, che hanno contribuito, ancor prima di determinare un verdetto per Cesare Previti, all' accertamento di quella che appare ormai come una verità storica: nel distretto giudiziario di Roma, il più importante d'Italia, un gruppo d'influenti magistrati si era consegnato nelle mani di alcuni avvocati per farsi amministrare all'estero notevoli risorse finanziarie. Tradendo in cambio il senso, l'onore, il prestigio e gli obblighi del loro mandato. Alla fine, è questa la vera storia del processo Previti; la storia del «porto delle nebbie», come veniva chiamato negli Anni 80 il palazzo di giustizia della Capitale. Nebbie alimentate dalle paludi bancarie della Svizzera dove, con una semplice telefonata, si potevano spostare patrimoni da capogiro dal conto di un avvocato a quello di un giudice. Ed è questo che l'indagine della Procura milanese, dopo mille difficoltà - e una legge, quella sulle rogatorie, che piombata nel bel mezzo del processo ha rischiato di azzerare anni d'inchieste - ha ritenuto di aver accertato oltre «ogni ragionevole dubbio». Così, non è dalle colorite testimonianze di Stefania Ariosto, nel lontano febbraio del 1995, che parte questo processo. Né dallo sconcerto che segue, nel 1996, l'arresto del capo dei gip Romani Renato Squillante (preso mentre insieme ai figli tenta di trasferire da un conto all'altro 9 miliardi di lire) e neppure dalle schermaglie politico-giudiziarie che ca¬ ratterizzano, nel settembre del '97, la richiesta d'arresto respinta di Cesare Previti. Non è l'interrogatorio «segreto» di Carlo De Benedetti, né le intercettazioni contestate del bar Mandara che imprimono una svolta all'inchiesta. A trasformare i «sassolini» raccolti mano a mano dalla procura, nei «macigni» di cui si avvarrà l'accusa nella sua requi¬ sitoria, sono le migliaia di noiosissime pagine che, fitte di numerini, orari, date, riferimenti criptati, nomi di fantasia, affluiscono con lentezza esasperante dai paradisi fiscali di mezzo mondo per ricostruire con micidiale precisione il sistema finanziario occulto che scandiva i tempi del «porto delle nebbie». E che, secondo le accuse, avrebbe inquinato almeno l'esito di due cause: Imi-Sir e Lodo Mondadori. Sempre attraverso gli stessi protagonisti, quella consorteria di avvocati e magistrati che, come sostenne Boccassini, non «garantì l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge», si adoperò «per un controllo militare del territorio, ovvero della Cassazione» e mise in pericolo «i fondamenti della democrazia» per garantirsi «il controllo dell' informazione». Quasi otto anni sono passati da quella lontana estate del '95 in cui si aprì, a carico d'ignoti, un fascicolo per corruzione in atti giudiziari. Eppure, si sono sempre difesi gli imputati, non è mai stato provato un passaggio di denaro diretto tra Previti e i suoi presunti complici. In realtà, un passaggio c'è. E si concre¬ tizza il 5 marzo del 1991 : da un conto del Credito svizzero di Chiasso, denominato Ferrido, nella disponibilità del dirigente Fininvest Giuseppino Scabini, viene accreditata al conto Mercier presso la banca Darier Hentsch di Ginevra, intestato a Previti, la somma di 434.404 dollari. Quello stesso giorno, Previti, al telefono, dà disposizioni per bonificare lo stesso importo a favore di un altro conto, con riferimento «Orologio», presso la Sbt di Bellinzona. Si tratta di un semplice transito che, come scrivono nei loro appunti interni i solerti funzionari di banca svizzeri, ha come riferimento il conto Rowena, sul quale il giorno dopo verrà infatti accreditata l'intera somma. E il conto Rowena, come lui stesso ammet¬ terà, ha come unico beneficiario l'ex capo dei gip romani. Renato Squillante. Però Squillante e Previti non sono gli unici protagonisti del processo e nemmeno del «porto delle nebbie». I comprimari sono molti. E alcuni furono davvero importanti. Come il giudice FiUppo Verde, ex piresidente del tribunale civile di Roma e poi Capo di gabinetto del ministero di Giustizia: Vittorio Metta, ex giudice della corte d'appello civile di Roma; l'avvocato civilista Attilio Pacifico, grande appassionato di casinò; l'avvocato Giovanni Acampora (già condannato a 6 anni con rito abbreviato nel luglio 2001) ex ufficiale della Gdf, per anni consulente Fininvest. E poi la vedova e il figlio del defunto «re della chimica» Anni 70, Nino Rovelli: Primarosa Battistella e Felice Rovelli. Sono loro a dare vita all'inchiesta sul cosiddetto affare ImiSir; una vecchia controversia tra l'Imi di Stato e l'ormai fallita Sir di Rovelli, per un finanziamento-mai concesso a quest'ultima, che improvvisamente si risolve nel 1991 a favore dei Rovelli. "' ".'. '." ' ^ " L'Imi venne condannata a un risarcimento di 980,3 miliardi. «Una sentenza comprata» per l'accusa, che ha sostenuto come nel '91 al giudice Squillante arrivarono 133 milioni mentre 67 miliardi furono versati dagli eredi Rovelli, tra il '93 e il '94, agli avvocati Previti (21), Pacifico (33) e Acampora (13), senza che questi avessero alcun ruolo ufficiale nella causa. Una somma enorme, 67 miliardi: come si giustifica? Le spiegazioni di Previti sono state nel corso degli anni a dir poco contraddittorie, fino alla candida mezza ammissione di una «semplice evasione fiscale» per una parcella non contabilizzata versata dagli eredi Rovelli per non meglio specificate «prestazioni professionali». L'ultima tranche di questi denari venne versata mentre Previti ricopriva l'incarico di ministro della Difesa nel primo governo Berlusconi e fu trasferita alle Bahamas dove, dopo una strenua resistenza alle rogatorie, l'onorevole di Forza Italia ha dovuto ammettere che quei soldi erano suoi. Secondo le accuse invece, quei soldi sono il pagamento di una gigantesca tangente servita per pilotare la causa miliardaria. Squillante avrebbe ricevuto del denaro per mettere in contatto Felice Rovelli con l'avvocato Francesco Berlinguer perché costui, in cambio di 500 milioni di lire promessi, avvicinasse un giudice di Cassazione per indurlo a fornire notizie riservate circa la causa ImiSir. Verde invece avrebbe pilotato la causa di primo grado nel 1986 e poi, come capo di gabinetto del ministero, si sarebbe adoperato per impedire a uno dei giudici del collegio d'appello di partecipare a una fondamentale udienza del 1989. L'ex giudice Metta infine è accusato di aver ricevuto una parte del denaro promessogli per decidere la causa in modo favorevole alla Sir. In tutto ciò, il ruolo di Pacifico sarebbe stato quello di «ufficiale pagatore» dei magistrati romani, di cui, per loro stessa ammissione, fu anche il «gestore» dei conti. Ruolo che svolse sia per Imi-Sir che per la vicenda del Lodo Mondadori. In questo caso una sentenza d'appello del 24 gennaio 1991, stesa materialmente e firmata dal giudice Metta (che avrebbe ricevuto per far ciò almeno 400 milioni in contanti), grazie alla quale il controllo della casa editrice di Segrate passò dalle mani di Carlo De Benedetti a quelle di Silvio Berlusconi. L'avvocato Attilio Pacifico li pm Ilda Boccassini durante un intervento in aula in una delle udienze del processo Imi-Sir