Zalayeta, bomber senza sorriso di Marco Ansaldo

Zalayeta, bomber senza sorriso L'URUGUAYANO, STELLA DELLA NOTTE DI BARCELLONA, ASPETTA LA RICONFERMA DEL CONTRATTO Zalayeta, bomber senza sorriso «Il nostro segreto è nella testa e nei polmoni» Marco Ansaldo TORINO Marcelo Zalayeta è un uruguayano cui bisognerebbe stirare la bocca con le mollette per vederlo sorridere. Persino a Barcellona, dopo il gol della vittoria juventina, sembrava che gli fosse morto il gatto in casa: Marcelo ha alzato semplicemente una mano per ringraziare Birindelli dell'assist perfetto che gli aveva servito e ha lasciato che fossero gli altri a ballargli intorno. Bettega e Vieri avrebbero portato le mani alle orecchie per cogliere la delusione del Camp Nou e irriderla. Lui, niente. «Non ci ho proprio pensato. Ero febee così», dice increspando le labbra nel massimo sfoggio di gioia mentre un po' tutti provano a fargli dire che si è realizzato un sogno. «Ma quale sogno? Io non sapevo neppure se avrei giocato a Barcellona come potevo sognare che avrei segnato il gol decisivo?». Queste cose possono succedere a Moggi, che martedì sera, in un corridoio dell'aeroporto di Barcellona raccontava l'ennesima premonizione: «Io l'avevo detto a Lippi che finiva 2-1 con un gol di Zalayeta». Lo iscriveranno all'albo dei maghi, come direttore generale. Marcelo il Panterone invece rimane un uomo di introverse fantasie. Discreto, silenzioso. Dicono che sia allegro con chi conosce bene ma ha un ristretto numero di conoscenti. Non ha avuto una vita facile in Uruguay. Crebbe in un club che si chiama Danubio, che è anche il suo secondo nome, poi passò al Penarol e a diciott'anni più qualche mese arrivò alla Juve. Non era l'approdo giusto. Finì a Empoli, andò per due stagioni al Siviglia che retrocesse e non aveva più i soldi per pagarlo, così la racconta lui: in realtà gli pendeva sul capo la denuncia per le percosse a un tale che, in una discoteca, si era permesso qualche apprezzamento sulla sua donna. Spagna addio. Rimase ad ammuffire quattro mesi a Montevideo. La Juve non lo chiamava, benché l'avesse sotto contratto. Non c'era un club che si muovesse per noleggiarlo. «Mi allenavo da solo con un preparatore, Oracio Cardoso ricorda - e non era semplice sentirsi fuori da tutto. Non pensavo che sarei tornato alla Juventus, aspettavo una chiamata da qualche società in Europa e non arrivava mai. Poi capitò l'infortunio a Salas che mi ha riaperto la strada per Torino. Come ci sono tornato? Più maturo. La prima volta ero troppo giovane e inesperto. Monterò e Fonseca mi aiutarono a inserirmi però era dura capire cosa si volesse da me. Empoli e Siviglia sono state due scuole importanti». Un gol può cambiare il destino? «No, la mia carriera non dipenderà dalla rete di Barcellona, anche se ha portato la Juve alla semifinale di Coppa e ho ricevuto qualche pacca sulla spalla in più». L'uomo è in bilico. Zalayeta non è un goleador e la Juve avrebbe bisogno di qualcuno capace di sostituire Trezeguet (o chiunque verrà al suo posto) in mezzo all'area. «Io mi adatto a fare la prima punta se ce n'è bisogno - conferma l'uruguayano - tuttavia sono più bravo se sto defilato. Da uomo d'area dovrei segnare di più». Infatti la sua migliore esibizione nzulà al match di Manchester quando Lippi lo mise a sinistra e il Panterone mise in allarme per un tempo gli inglesi. Partiva con quella sua corsa che pare finisca in un capitombolo, invece è la chiave dei suoi slalom. Non ha la tecnica sudamericana per dominare la palla negli spazi molto stretti, deve migliorare l'istinto del gol. «A Barcellona è stato abbastanza facile segnare - spiega - la palla era molto veloce, non dovevo imprimerle la forza. E' bastato toccarla nella maniera giusta per evitare il portiere». Adesso aspetta. «Per me non è cambiato niente - aggiunge -. Mi dicono che con questo gol sono entrato nella storia della Juve ma francamente non mi importa molto che fra trent'anni, parlando della vittoria a Barcellona, ci si ricordi di me. Preferirei invece che il gol mi aiutasse a rimanere qui. Ho anco¬ ra cinque partite di campionato e due o tre di Coppa per convincere Moggi e Lippi che merito di restare a giocarmi il posto. Non è facile. Niente è facile in questo mestiere, bisogna sudarsi tutto. Del resto la Juve dimostra che la costanza e la fiducia nei propri mezzi portano ai risultati: questa è una squadra che ha il carattere giusto e una grande condizione fisica. Nessuno lo ha detto, però a Barcellona abbiamo corso per due ore nonostante avessimo un uomo in meno. Il nostro segreto è nella testa e nei polmoni». Il gol di Marcelo Zalayeta ha regalato alla Juve la semifinale in Champions League