WATERLOO trionfo per un soffio

WATERLOO trionfo per un soffio I GENERALI E LA GUERRA IN UNO STUDIO DI JOHN KEEGAN. COSÌ WELLINGTON SCONFISSE NAPOLEONE, SU UN CAMPO RICOPERTO DI 40 MILA CADAVERI WATERLOO trionfo per un soffio John Keegan ERANO circa le tre, Wellington fece avanzare rinforzi di fanteria e artiglieria schierandoli dietro le ali destra e sinistra, ma il settore che lo preoccupava di più era la destra del centro. Qui, tra Hougoumont e il crocevia, la cresta dell'altura era difesa da una serie di battaglioni britannici privi di esperienza, sui quali incombeva chiaramente una carica di massa della cavalleria francese. Il duca raggiunse questo settore. Il tempo stringeva. Dal suo albero aveva appena intravisto le punte delle lance dei prussiani che stavano venendo in suo aiuto da Wavre, dove Rlucher si era ritirato dopo Ligny, Il loro arrivo significava la salvezza. Ma come Wellington avrebbe detto anni dopo a Sir John Jones, «il tempo che ci misero apparve interminabile. Sembrava che loro e il mio orologio si fossero fermati». Mentre i prussiani avanzavano lentamente, l'assalto al galoppo delle colonne della cavalleria francese avrebbe potuto distruggere la sua linea di difesa così attentamente predisposta, e risolvere la battaglia a favore di Napoleone. L'imperatore aveva deciso di non prendere parte alle sue decisioni tattiche. Osservava dall'altura situata dall'altra parte della valle. Wellington, invece, si manteneva vicinissimo alla propria fanteria, muovendosi a cavallo tra i ranghi, dicendo qualche parola di incoraggiamento, talvolta rifugiandosi dietro un quadrato di fanti, quando la cavalleria francese imperversava in quel punto. Il più delle volte, per tirarsi fuori dalle situazioni di pericolo, «si affidò alla propria destrezza come cavaliere e alla velocità di Copenhagen [il suo cavallo, ndrj». Restò sempre nel campo visivo dei suoi soldati. [...1 Un componente del suo stato maggiore ricordava che «tra le tre e le quattro rimase per molti minuti esposto a un fitto fuoco di fucileria. ...] Guardando indietro potevo appena scorgere in mezzo al fumo la sagoma del duca e del suo cavallo, mentre i proiettili - che arrivavano fitti- fischiavano sopra le nostre teste senza colpirci. Fu un momento di grande tensione, perché se il duca fosse caduto Dio solo sa che cosa sarebbe successo». Una decisione azzeccata Alle 16,20 chiese a un aiutante di campo che ora fosse. Gli attacchi della cavalleria francese erano ora meno frequenti e Wellington sentiva crescere la speranza di riuscire a reggere fino all'arrivo dei prussiani. Portò avanti una delle ultime brigate tenute di riserva, che era anche ima delle migliori, collocandola tra i battaglioni inglesi inesperti - ormai diventati già veterani - e Hougoumont. Fu una decisione azzeccata, come avrebbe dimostrato l'ormai prossima «crisi di Waterloo». Prima della fase nota come «crisi», mentre gli attacchi della cavalleria francese si esaurivano nell'impotenza, verso le cinque e mezzo, Wellington dovette però accorrere in un altro punto. La ripresa dei combattimenti di fanteria intomo a Hougoumont l'aveva costretto a impegnare in quel luogo riserve che invece dovette rifiutare a imo dei generali i cui uomini erano sopravvissuti a stento a un assalto di cavalleria. «Ditegli che ciò che domanda è impossibile» esclamò. «Lui, io e ogni inglese sul campo dobbiamo morire nel punto che occupiamo in questo momento». Mentre esprimeva questo rifiuto, gli giunse notizia della caduta diLaHayeSainte. Subito emanò un altro dei suoi ordini così precisi ed essenziali: «Ordinerò alle truppe di Brunswick dietro Maitland e anche ad altre di raggiungere quel punto. Voi andate e conducete sul posto tutte le truppe tedesche di quella divisione che potete e tutta l'artiglieria che riusciteatrova'P^. Subito si mosse anche lui per recuperare alcuni soldati di Brunswick che arrivavano di corsa da dietro La Haye Sainte, e farli ritornare nei ranghi; Cathcart, uno dei suoi aiutanti in campo, lo ricordava «molto seccato» in quel momento. Forse era adirato con il battaglione leggero della Legione tedesca del re, perché aveva perso la fattoria, o forse con se stesso, per aver lasciato che restassero senza munizioni. Onesta crisi minore, temporaneamente risolta, cedette il passo alla crisi culminante. A quanto pare, all'incirca in quel momento un disertore francese riferì a Wellington la notizia che Napoleone era pronto a mettere in campo la Guardia imperiale. Che fosse stato avvisato o meno, presto Wellington potè constatare la cosa con i suoi occhi. Dopo aver affrontato l'espugnazione di La Haye Sainte, era tomato lungo la linea verso Hougoumont, facendo avanzare riserve di fanteria e artiglieria ovunque vedesse vuoti o punti deboli. Alle sette circa si trovava sull'altura al di sopra del castello, con le Foot Guards e il 520 fanteria leggera davanti a sé. Attraverso il cannocchiale (un osservatore l'aveva colto a tirare dentro e fuori il tubo, soprappensiero), scorse in quel momento la Guardia francese che iniziava a discendere il pendio dall'altro lato della valle. Le dense colonne che avanzavano al rullo dei tamburi non erano mai state sconfitte in battaglia. Wellington aveva ordinato alle guardie britanniche di sdraiarsi a terra. Quando i francesi arrivarono a tiro dei moschetti, disse: «In piedi, guardie. Pronti. Fuoco!». La scarica di proiettili colpì la testa della colonna francese inducendola a indietreggiare come se fosse stata spostata di peso, così descrisse l'effetto un testimone. Alcuni francesi riuscirono a rispondere al fuoco. Poi però gli inglesi avanzarono con la baionetta innestata, coperti dal fianco dal tiro del 52" fanteria leggera. La colonna della Guardia imperiale francese comin- ciò a disintegrarsi dal fondo: ben presto defluì tutta verso il punto di partenza. Wellington, che aveva raggiunto il 52", diede al colonnello un ordine che mirava a essere conclusivo: ((Avanti, andate avanti. Non dategli il tempo di riorganizzarsi. Non reggeranno». Detto ciò, spronò Copenhagen e tomo al crocevia, dove poco dopo potè vedere con il cannocchiale i segni inequivocabili di un attacco in forze dei prussiani contro il corpo principale dei francesi sull'altura lì di fronte. Uno degli Highlanders lo vide ritto in piedi sulle staffe, con un'espressione «quasi sovrumana» in volto. «Oh, al diavolo» lo sentirono dire tra sé «quando si è in ballo si deve ballare». Si levò il cappello e lo agitò tre volte in direzione dei francesi, per dare il segnale dell'avanzata generale. Il duca avanzò con le sue truppe sul campo di battagha offuscato dal fumo e dalla foschia, in mezzo a una scena di orrore indicibile. Su una superficie di meno di due chilometri quadrati giacevano quarantamila soldati e parecchie migliaia di cavaUi, uccisi o feriti nelle dieci ore precedenti. Quelli ancora vivi attraversavano il campo, avanzando o ritirandosi, calpestando i morenti e i morti. In quel momento Uxbridge, che era accanto a Wellington, fu colpito da una cannonata che gli portò via una gamba. La palla di cannone passò sotto il collo di Copenhagen. Wellington sostenne il suo comandante in seconda finché non arrivarono altri che lo trasportarono via, poi riprese ad avanzare, continuando a dare ordini: «Formate le compagnie e procedete immediatamente, dovete scalzare quelli là, dritti davanti a voi». Mentre si avvicinava sempre più al nemico che indietreggiava, un ufficiale del suo stato maggiore lo pregò di non correre altri rischi. ((Ma no» rispose lui «possono spara- re quanto voghono. La battaglia è vinta. Ora la mia vita non conta». Intorno alle dieci la sua avanzata attraverso il campo di battaglia lo portò vicino alla Belle Alliance. Blucher era lì, trasudante gin e linimento, in attesa di gettargli le braccia al collo. «Mein UeberKamerad» esclamò (.(quelle affaire». Dal punto di vista linguistico avevano in comune solo le poche parole di francese che il vecchio prussiano era in grado di masticare. Era quasi buio, ormai, e Wellington fece di nuovo dietrofront per riattraversare il campo di battaglia e raggiungere i suoi alloggi. In questa cavalcata non c'erano volti spensierati come al mattino. Il gruppo di Wellington, penosamente ridotto nel numero, cavalcava al passo e per tutto il ritomo, riferì uno di loro, «non vidi il duca parlare con nessuno del suo piccolo seguito, era visibilmente cupo a abbattuto [...j anche i pochi uomini che erano con lui facevano pensare più a un corteo funebre che a un gruppo di vincitori di una delle battaglie più importanti della storia». A Waterloo smontò da cavallo, diede a Copenhagen un colpetto affettuoso a cui il purosangue rispose con un calcio poderoso, poi andò a consumare la cena che il cuoco francese teneva pronta per lui. Erano circa le undici. Mangiò in silenzio. Forse ciò che lo avviliva, più della tensione della giornata e degli orrori del campo di battagha, era la perdita di certi subalterni a lui particolarmente vicini. «Grazie a Dio l'ho visto» ripeteva ogni volta che uno dei sopravvissuti si affacciava alla porta. Ma non erano molti. Gordon stava morendo nel letto del duca e de Lancey poco lontano. Canning era stato ucciso, Barnes e Fitzroy Somerset erano feriti. Wellington, seduto a tavola in compagnia di un solo ufficiale, era afflitto dal peso di essere sopravvissuto. Bevve un bicchiere di vino insieme al suo commensale. «In ricordo della guerra della penisola iberica» disse, poi, alzando le mani «come un supplice», esclamò: «Oggi Dio onnipotente mi ha tenuto la mano sul capo». A quel punto balzò in piedi, andò a coricarsi su un divano e si addormentò immediatamente. «Se non ci fossi stato io!» - Poté riposare solo poche ore. Alle tre fu svegliato dal chirurgo Hume, con la notizia che Gordon, al quale aveva amputato la gamba nel corso della serata, era appena spirato tra le sue braccia. Il duca si svegliò di colpo. «Si era tolto tutti gli indumenti, come era solito fare» scrisse Hume «ma non si era lavato» (un fatto quasi unico, perché Wellington aveva la fissazione della pubzia). «Quando entrai nella stanza si sollevò nel letto, con il viso ancora coperto del sudore e della polvere del giomo prima, e mi tese la mano, che io presi e tenni nella mia mentre gli dicevo della morte di Gordon e gli riferivo di altri caduti di cui ero venuto a sapere. Era molto scosso. Sentii le sue lacrime cadere rapide sulle mie mani e, guardandolo in volto, vidi le lacrime correre l'una dietro l'altra, striandogli le guance impolverate». Per quanto scosso, però, il duca ora era sveglio e doveva occuparsi dei doveri del nuovo giomo. Si alzò, si lavò, si vestì, si rase, prese una tazza di tè con un po' di pane tostato - come faceva sempre - e poi si mise a scrivere il suo dispaccio da Waterloo. Sul Times di Londra, che lo pubblicò quattro giorni dopo, occupava quattro colonne. Le notizie sulle perdite lo colpirono a tal punto che alle cinque si inteiruppe, ma il dispaccio fu completato quello stesso giomo a Bruxelles. Ù, seduto accanto alla finestra di un albergo, con la penna in mano, riconobbe il diarista Creevery, in mezzo alla folla in strada, e lo invitò nella propria camera. «E' stata una cosa dannatamente dura» gli raccontò camminando su e giù. «Blucher e io abbiamo perso trentamila uomini [il numero reale era poi molto superiore]. E' stato proprio per un dannato soffio, mai arrivato così vicino alla catastrofe». E poi, sempre camminando, sbottò: «Per Dio! Non penso che ce l'avremmo fatta se non cifossi stato io!». Il duca di Wellington (1769-1852)

Persone citate: Barnes, Canning, Cathcart, Fitzroy Somerset, Foot, Haye, John Jones, John Keegan, Wavre