Quei Sergenti nella neve tra orgoglio e memoria

Quei Sergenti nella neve tra orgoglio e memoria I RAGAZZI Di ALLORA DI FRONTE ALLA GUERRA DI OGGI: RIVIVIAMO LO STESSO ORRORE Quei Sergenti nella neve tra orgoglio e memoria La lunga battaglia del sessanta reduci della campagna di Russia per il rientro delle salme dei compagni della tragica spedizione la storia Roberto Ravanello NON vogliono proprio mollare i sessanta torinesi che sessant'anni fa combatterono sul tragico fronte russo. In qull'inverno rosso sangue è stata scritta una delle pagine più dolorose della storia italiana. E' stata ricordata come «La ritirata di Russia» e raccontata nel 1944 da Mario Rigoni Stem ne «Il sergente nella neve» e nel '64 dal film «Italiani brava gente» di Giuseppe De Santis. Furono oltre 229 mila i soldati italiani mandati al massacro dal governo fascista sul fronte Russo, circa la metà morirono. Tanti partirono' da Torino e molti non tornarono. I sopravvissuti hanno costituito l'Unirr (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia) che, nella sede torinese di via Palazzo di Città, conta su sessanta iscritti, dodici dei quali sono ex prigionieri. «Per tanti anni ci siamo battuti perché le nostre salme tornassero in Italia - spiega il Generale Enzo Paglieri, presidente della Unirr di Torino, riontrato in Italia poco prima della ritirata con ima delle ultime tradotte - e solo a partire degli anni '90 abbiamo avuto la collaborazione della Russia, con l'avvento di Gorbaciov. Prima l'Urss aveva sempre negato che ci fosse alcunché»., I ragazzi di allora hanno oggi più di ottant'anni e li contraddistingue un'incredibile tempra. Sono orgogliosi della loro appartenenza al Corpo d'Armata Alpino che «è stato definito imbattuto in un documento ufficiale sovieti¬ co» precisa il Generale. Gli Alpini di Russia ricordano con lucidità quei giorni tremendi che ricostruiscono con precisione. Avevano detto loro che sarebbero andati sulle montagne del Caucaso, si ritrovarono a combattere sulla riva di un fiume. Alpini in pianura. «La Cuneense, la mia Divisione, era attestata sul Don quando, il 14 gennaio, arrivò l'ordine di arretrare a Waluiki che distava 200 km», ricorda il Tenente Colonnello Pieifrancesco Spina, classe 1921, aiutandosi con una cartina che evidenzia i movimenti delle truppe. «Anche la Julia ricevette l'ordine», conferma il Tenente Colonnello Antonio Andrioli, 86 anni. Tutta l'Armata, sette Divisioni di Fanterìa e tre Alpine, lasciò il Don e si mise in marcia. «Durante il tragitto venivamo attaccati dai russi tutti i giorni continua Andrioli - ed eravamo costretti ad abbandonare i nostri compagni morti e anche molti feriti. Immaginatevi il fratello costretto a lasciare il fratello disteso sulla neve. Tremendo. Erano gli stessi feriti a dirci di continuare, di lasciarli 11». La temperatura era di 40 gradi sotto lo zero e i soldati italiani erano male equipaggiati, vittime del freddo e dei proiettili nemici. «Molti fuorono sepolti in fosse comuni per mano dei contadini locali. Oggi è molte difficile conoscere l'identità dei caduti se non impossibile» afferma Andreoli. Durante i dieci giorni della ritirata regnava una grande confusione: «Gli ordini dicevano che a Waluiki avremmo trovato i tedeschi. Solo la Tridentina seppe che invece vi erano le truppe sovieti¬ che - ricorda Spina - tutti gli altri finirono dritti nelle mani dei Russi. La Tridentina riuscì a sfondare più a nord, a Nikolajevka, mentre il 27 gennaio noi fummo sconfitti e imprigionati». Spina e Andriolo vissero, in prigionia fino al luglio '46, e già sono stati tra ì più fortunati «perché ci sono soldati spiegano - che sono rimasti prigionieri fino ai primi anni '50. Qualcuno venne trattato da delinquente comune e certo noi ufficiali non ce la passammo bene. Per i sovietici noi eravamo gli aguzzini del popolo e all'inizio le nostre condizioni furono inumane», «ma col tempo fummo trattati meglio» precisa Spina. «Quando venimmo liberati - ricorda Andrioli - ci trattennero con altri 700 ufficiali ancora per tre mesi, fino a dopo il referendum. Forse avevano paura del nostro voto...», «Io comunque ero per la Repubblica» replica pronto Spinai. Ad oggi si contano circa 40 mila vittime nei campi di concentramento russi e la cifra è ancora in difetto: «Abbiamo visto le immagini della guerra in Iraq e siamo inorriditi. Vediamo quei morti e ci ricordiamo i nostri». L'autiere Mario Savarino del 70 Centro Automobilistico che, trovandosi nelle retrovie, riuscì a rientrare prima delle debacle, racconta i buoni rapporti con i civili russi: «Ci preferivano ai tedeschi e avemmo con loro un ottimo rapporto». Anche Mario Cane varalo, classe '22, rientrò in Italia già nel gennaio '43: «Ero dbi Genio Tramissioni» ricorda. «Ah, e cosi eri un marconista? - dice Spina sorridendo ì beh, non ci avete reso proprio un gran servizio». Un'immagine della campagna di Russia: le prime salme sono tornate in Italia solo negli Anni 90