Pesach, la speranza al chiaro di luna di Elena Loewenthal

Pesach, la speranza al chiaro di luna LA RICORRENZA EBRAICA CADE INTORNO ALLA PASQUA CATTOLICA: DUE FESTE CON LE STESSE RADICI Pesach, la speranza al chiaro di luna Elena Loewenthal BETEL significa «casa di Dio»: l'ebraico, soprattutto quelle più antico, è una lingua succinta che non conosce ancora sfumature, dichiara invece di suggerire. Qualche giorno fa, dentro le righe di un'intervista che ha fatto il giro del mondo, Ariel Sharon ha nominato questo luogo fra gli insediamenti suscettibili di ritiro, quando saranno raggiunte una pace vera e una altrettanto vera convivenza fra Israele e Palestina. Betel è il luogo delle origini, incrocio fatale della storia e della geografia per il popolo ebraico: qui pianta le tende Abramo appena giunto dalla remota Ur ed eleva un altare a quel Signore che prima gli ha ingiunto di lasciarsi tutto alle spalle e poi l'ha benedetto con un futuro incerto, ancora da realizzarsi: «renderò glorioso il tuo nome e sarai una benedizione» (Genesi 12,2). Due generazioni dopo, a Betel l'Eterno rinnoverà per Giacobbe quella benedizione, dentro un sogno. Molto tempo dopo, all'epoca dei Giudici, in quel punto esatto si poserà il Tabernacolo con l'Arca dell'Alleanza: il Tempio di Gerusalemme è ancora da costruire, le tribù d'Israele salgono a questo luogo, e qui «piangono, stanno davanti al Signore, digiunano offrendo olocausti e sacrifici pacifici davanti all'Eterno» (Giudici 20, 26). Lungo era stato il viaggio di questo mobile santuario che Dio comanda a Mosè di costruire durante l'erranza nel deserto, memoria e custodia dei comandamenti impartiti sul monte Sinai, incisi sulla pietra e nel cuore. Una colonna di fumo e un'altra di fuoco scortavano giorno e notte il cammino del popolo e di quell'Arca che serbava la parola del cielo, sopra la quale era come adagiata un'immanenza divina quasi tangibile. Vagarono per quel deserto lungo quarantanni di attesa, smarrimento e una congerie di sentimenti che da una distanza immensa giunge a noi di là come una suggestione forte. Non è difficile, in fondo, provare a sentirsi dentro il deserto, luogo inaf- ferrabile senza concreta consistenza, dove tutto si assomiglia in una monotonia circolare: le tribù d'Israele viaggiavano in una direzione ignota, seppure verso una meta certa e ambita come la Terra Promessa. Il Pesach, cioè la Pasqua ebraica, memoria di ciò che muove verso il deserto, cade quest'anno intorno a quella cattolica. Guest' ultima incide un giorno soltanto del calendario, l'altra si dilata lungo una settimana e più. Ricorre sempre nel primo plenilunio dopo l'inizio della primavera, perché fuggendo dall'Egitto gli avi erano scortati da quel chiarore gentile. La Pasqua ebraica, del regto, così come altre festività del calendario d'Israele, riassume in sé memoria storica e celebrazione di quel ciclo naturale cui tutti apparteniamo: è festa della liberazione dalla schiavitù ma anche inno sommesso alla vita che torna con la bella stagione, alle verdure che spuntano negli orti. L'uovo sodo al centro della tavola, ad esempio, è memoria della durezza della vita in Egitto, del ritmo circolare di una storia che si ripete, ma anche immagine più diretta'di quej momento dell'anno in cui le galline riprendono a posare. E anche le prosaiche, comuni «pulizie di Pasqua» sono il probabile retaggio di quel rito ebraico che impone di passare al setaccio tutta la casa in cerca di tracce anche minime di cibi lievitati - briciole di pane e quant'altro - che durante la festa sono banditi per rispetto e memoria del pane azzimo, il pane dell'afflizione ma anche del riscatto, umile e basso, così diverso da quello solito, alto e gonfio, che come per contrappasso in questa settimana simboleggia la superbia. Non sono poche, a dire il vero, le analogie spirituali fra la celebrazione ebraica e quella cristiana, a partire dal significato originario del termine, che in ebraico significa «passare», o meglio «passare oltre», a indicare,un attraversamento materiale e esistenziale, irreversibile. Un passaggio cruciale, come tutti prima o poi incontriamo nella vita. Quello di allora fu la discesa della decima, fatale piaga d'Egitto, che piegò infine la protervia del Faraone e lo costrinse a congedare i figli d'Israele: la strage dei primogeniti, cui le case ebraiche sfuggirono grazie al segno del sangue d'agnello imposto sugli stipiti delle porte. Su quelle case, la furia dell' Etemo «passò» senza toccare, mentre «Faraone si alzò di notte: egli, tutti i suoi servi e tutti gli Egiziani e vi fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto» (Esodo 12, 30). Per questo la liturgia ebraica impone di non recitare per intero i salmi dell'Alleluia, perché non si può mai essere felici quando l'ira del Signore si abbatte sulle sue creature, siano esse anche il perfido Faraone e i suoi sgherri spediti a inseguire il popolo in fuga. La Pasqua cattolica è sostanza di luogo: tutto avviene intorno a quella croce che si fa prima passione e poi morte e poi resurrezione: tormento,, tomba, nuova vita. Il Golgota è in un certo senso tin distillato geografico che contiene per*intero la storia. La Pasqua ebraica, invece, nel suo èssere transizione epocale fra la schiavitù d'Egitto e quella libertà ancona virtuale che concede il deserto, sfugge ad ogni geografia. Aimati di qualche cialda di pane azzimo che non aveva fatto in tenlpo a lievitare nella notte, i figli d'Israele fuggono dalla terra dhe li ha resi schiavi. Varcato il tyar dei Giunchi, quel Mar Rosso i cioè che si aprì al comando dèi bastone mosaico e della ingiunzione divina, approdano verso, un luogo non luogo che non è destinazione, ma ancora soltanto attesa. Un luogo dove non v'è altrp che la memoria, da coltivare. Dove maturare la consapevolezza della libertà, e prepararsi alla véra meta ancora lontana, irraggiungibile, situata in chissà quale direzione. Il deserto non ha punti cardinali, se non dentro il tempo: c'è il prima dell'Egittoj terra di schiavitù ma anche di jun benessere presto rimpiantoj «laggiù sedevamo davanti a pentole di carne, mangiando pane a sazietà» (Esodo 16, 3). C'è il dopo della Terra Promessa, che esige quarantanni di erranza e rigenerazione, prima di essere calpestata. La Pasqua ebraica è memoria di una co adizione di libertà tutta particola:'e: non a caso il rituale impone paù un impegno d'immedesimaziine che il semplice ricordo. E' un^ libertà spoglia, che non rivendica altro se non fiducia in Dio e nel suo balbuziente portavoce, un Mosé tremendamente umano e vicino a tutti noi. E' una libertà che non possiede altro se non sé stessa, non è conquista né appropriazione di ciò che ci spetta: ha alle spalle la terra fertile dell'Egitto divenuta per gli schiavi ebrei insopportabile macigno di malta, ha nel suo futuro il ritorno a una terra agognata e sconosciuta. Ma nei giorni della Pasqua, \ è ancora soltanto un deserto guasi immateriale, fermento d^lla coscienza, nido dei nostri sentimenti da quel giorno in poi. \ elenaJoewenthal@lastampa.it Un ebreo con i rotoli della Torah in mano davanti al Muro del Pianto

Persone citate: Ariel Sharon, Giacobbe, Guest