Giubbotti e scarpe fatti d'arte

Giubbotti e scarpe fatti d'arte UNA NUOVA GENERAZIONE SI AFFACCIA SULLA SCENA: LA RACCONTA DA OGGI AL CASTELLO DI RIVOLI LA MOSTRA «I MODERNI» Giubbotti e scarpe fatti d'arte Addio al video, tornano pittura e scultura Rocco Mol'rternì RIVOLI AD accogliere i visitatori nella Manica Lunga di Rivoli è un piccolo monitor sospeso per aria. Al centro ha l'immagine ferma di un pallone da basket: intomo ruotano mani di giocatori e stadi affollati. Il video è di Paul Pfeiffer, si chiama Giovanni 3,16, è stato realizzato con un lavoro certosino, «ritagliando» cinquemila immagini televisive di incontri del campionato Nba. Allude nel titolo a un versetto del Vangelo: è un lavoro sul mistero cristiano della transustanziazione. Pfeiffer, nato ad Honolulu nel '66, è uno dei protagonisti della mostra «I Moderni», curata da Carolyn Christov-Bakargiev, che si apre oggi al Museo d'arte contemporanea del Castello di Rivoli. «Dopo gli anni - spiega - del video e della documentazione come opera d'arte, che hanno trovato la massima espressione nell'ultima edizione di Documenta a Kassel, si affaccia oggi una nuova generazione di artisti che affronta la realtà in modo più "indiretto"». Artisti che sembrano riscoprire «l'autonomia dell'opera», utilizzando soprattutto pittura, scultura e installazioni, raramente video, quasi mai fotografia. «Con il digitale - spiega ancora la curatrice sembrano porsi oggi problemi formali analoghi a quelli affrontati più di 100 anni fa da Manet e dai fondatori del "modernismo"». Talora le opere sono realizzate con oggetti di uso comune, dalle scarpe da ginnastica Nike (le maschere-scultura di Brian Jungen), alla carta igienica o al sapone (Tom Friedman), ai cerchetti per i capelli o alle maniche dei giubbotti di cuoio (Jim Lambie), alle sedie (Simon Starling), ma a differenza di quanto avveniva con la pop-art «questi oggetti sono usati - dice ancora la Christov-Bakargiev - come fossero pezzi di vetro da fondere o metalli da forgiare». In molte opere si mescola passato e futuro, o meglio «gli artisti guardano a un passato che era fondato su un'idea di futuro»: così c'è il videp Happy New Year-Memorial Project far Vietnam II, di Jun Nguyen-Hatsushiba, omaggio «subacqueo», all'offensiva dei viet-cong nel capodanno '68, che mutò le sorti della guerra del Vietnam, oppure si diffondono, nella Manica Lunga, i versi dell'InfemozionaZe, cantati da Susan Philipsz, un sottofondo che è l'eco lontana e sohtaria dell'inno famoso, oppure ancora le immagini di Femsehtunn, video di Tacina Dean, gifato nel ristorante sulla torre della tv berlinese, costruita nel '69, simbolo di una modernità che allora, si era appena sbarcati sulla luna, sembrava trionfante. Il «costruttivista» Massimo Bartolini (con Elisabetta Benassi il solo itahano in mostra) in Finestra su finestra realizza una stanza candida e astratta: ci entri dentro (imo alla volta, per carità) e ti vedi un rubinétto con l'acqua «capovolta» e una parete di plexiglas che dà sul panorama della Val Susa. Ci sono dei buchi e puoi sventolare la mano all'aria aperta. Ti trovi sperso e spiazzato, come fossi in un altro mondo, che benché o forse proprio perché rigorosamente geometrico finisce per sembrarti un sogno o un incubo. Il cubano-californiano Jorge Pardo in Io e la mamma rivisita una celebre poltrona di Le Corbusier e fabbrica arazzi, il venezuelano Arturo Herrera in Night before last rielabora materiali della cultura di massa. Da non perdere nel cortile del Castello l'opera di Sarah Sze: come fosse un reperto archeologico di quelli che siamo abituati a «calpestare» nelle strade del centro da una lastra di plexigas osserviamo un groviglio sotterraneo di bicchieri di plastica, formaggini e lampade, tasselli e ciuffi d'erba. Una sezione della mostra è dedicata ad installazioni sonore: anche qui l'idea è capire come oggi gli artisti lavorino con i suoni, in una sorta di punto di frontiera tra storia dell'arte e storia della musica, dove però i suoni sono rigorosamente di origine digitale. A differenza di mostre raccogliticce che dilagano in ogni dove, realizzate sovente senza molte idee o semplicemente per creare un evento, «I Moderni» parte da un'idea e da un progetto/orte, che si dipana attraverso la scelta di opere a volte emozionanti a volte meno, ma sempre funzionali nel dùnostrare l'assunto di partenza e nel far riflettere su quali strade stiano percorrendo le nuove generazioni di artisti. Si mescolano passato, presente e futuro nei!'omaggio subacqueo ai Vietcong e nell'Internazionale che diventa nenia L'omaggio ai Vietcong di Nguyen-Hatsushiba, a destra le sedie di Starling I MODERNI»

Luoghi citati: Honolulu, Rivoli, Vietnam