Dimmi come guardi, ti dirò chi sei di Marco Belpoliti

Dimmi come guardi, ti dirò chi sei SAGGI SULLA PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE E STUDI DI ANTROPOLOGIA DEFINISCONO I LIMITI E LE IMPLICAZIONI DI QUESTA FONDAMENTALE ATTIVITÀ UMANA Dimmi come guardi, ti dirò chi sei Marco Belpoliti PER cinque anni, tra, il 1935 e il 1940, lo scultore Alberto Giacometti lavora mattina e sera nel suo studio parigino con un modello. Siede davanti a lui e prova a ritrarlo. Niente è come si è immaginato, scrive a Pierre Matisse, il suo gallerista. La testa, ad esempio, «diventava ai miei occhi un oggetto completamente sconosciuto e privo di dimensioni. Due volte all'anno iniziavo le teste, sempre le stesse, senza mai \7Pnìrnp a rann P aanp venirne a capo e aane mettevo da parte gli studi». Decide di lavorare a memoria, su quello che ha visto, ma le teste che modella diventano sempre più piccole; arriva al Dunto di lavorare con un coltelino, e spesso è sufficiente un colpo perché la scultura finisca in polvere. Grazie al disegno l'artista capisce che deve farle strette e lunghe; solo così riescono a somigliare a quello che vede. La difficoltà per lui è tutta lì: rifare ciò che vede. Ma cosa vede Giacometti quando guarda una testa? Tutto il suo lavoro artistico risponde a questa domanda, una domanda che potremmo facilmente rivolgere a noi stessi: cosa vediamo quando guardiamo? Tutti possono guardare la stessa cosa, dicono gli studiosi di percezione, senza vederla allo stesso modo. Il guardare, ha scritto Giuseppe Di Napoli in un capitolo di un libro dedicato alla visione (Segno forma spazio colore, Zanichelli), «non è separabile dagli occhi di un soggetto che, da un preciso punto dello spazio, dirige lo sguardo su un determinato oggetto». L'uomo ha conseguito la posizione eretta e possiede lo sguardo frontale. Noi guardiamo in avanti. Questo divide la nostra visione in due campi: quello che ci sta davanti e quello che ci sta dietro; il guardare determina tutta la nostra attività motoria, cosa cui normalmente non badiamo, e di cui ci accorgiamo solo in caso di deficit. La visione umana è unilaterale; non coglie nello stesso tempo tutti i lati degli oggetti osservati. Il nostro campo visivo verticale è meno vasto di quello orizzontale; se fissiamo un'ipotetica linea dell'orizzonte all'altezza dei nostri occhi, il campo verticale ha una parte inferiore di circa 80", mentre la superiore è di 40o, per un'apertura complessiva di 140"; il campo orizzontale ha invece un'ampiezza di 180o circa. Questo ci spinge a vedere meglio le cose che si trovano sotto il nostro orizzonte, fatto che ubbidisce a un'eredità biologica: relazionarci al suolo, dove i nostri progenitori cercavano il cibo e controllavano i loro movimenti. La biologia continua a comandare la nostra visione del mondo. La maggiore capacità visiva del nostro occhio si esprime nella visione foveale, attraverso cui isoliamo un particolare o un oggetto nel contesto ambientale; da questo ricaviamo informazioni sulla sua forma, sul suo colore e sulla sua superficie. La zona periferica dell'occhio è invece in piena azione al crepuscolo, quando le immagini delle cose perdono rilievo, i colori svaniscono e l'unico dato di riconoscimento di cose e di persone è la loro silhouette. Giuseppe Di Napoli distingue tra un vedere di tipo «cognitivo-biologico», che attiene il guardare senza vedere, quel colpo d'occhio impressivo, che tutti noi usiamo (ci serve per assicurarci che il mondo quotidiano esista, che stia là); e un vedere di tipo «euristico» che vuole oltrepassare la visibilità manifesta delle cose per raggiungere quella che Di Napoli chiama la «visibilità segreta, invisibile, nascosta». Questo è il modo di vedere di Alberto Giacometti, e di Paul Klee, il quale si è proposto nei suoi scritti di «rendere visibile» l'essenza stessa delle cose. Cosa vede l'artista? Per dirla con Ernst H. Gombrich: «Il pittore non dipinge quello che vede, ma vede quello che dipinge». Ma noi cosa vediamo quando guardiamo? Un antropologo culturale, Antonio Marazzi, cerca di rispondere a questo interrogativo nel suo recentissimo libro. Antropologia della visione (Carocci). Egli sviluppa il discorso prima di tutto dalla parte della cultura: il primato della cultura sulla natura, secondo una convinzione di fondo che l'antropologia ha più volte ribadito: lo sguardo, l'elaborazione mentale della vista, ha il compito di assegnare l'imprimatur sociale sul corpo. Rifacendosi a studi di viaggiatori ed etnologi, Marazzi analizza il problema della definizione dei colori nelle varie culture. In quella giapponese, scrive Marazzi, che ha pubblicato di recente Giapponeserie (Unipress), esiste un colore. aoi, che in inglese si può tradurre con blu e con verde (occhi blu e mela verde sono connotati dalla medesima parola: aoi). Lo stesso termine indica ciò che per noi è il «non maturo», che corrisponde a quel verde-giallo acido, quel verde che si vede proprio in questa stagione, all'inizio della primavera (il mondo vegetale passa dal bianco al verde acido e poi esplode nel verde propriamente detto nell'arco di qualche settimana). In giapponese il verde della natura è invece midori, ma se dovessimo indicare il verde dei semafori stradali - uguale in Giappone come in Italia - dovremmo usare il termine aoi. Altro colore di difficile traduzione è murasaki, che corrisponde al nostro porpora e violetto (il colore delle melanzane). Secondo Marazzi è la cultura a delimitare le variazioni linguistiche dei colori. La cultura ha la meglio sulla natura. Poiché non possiamo pensare che i giapponesi vedano i colori diversamente da noi, siamo portati a pensare che le categorie linguistiche non abbiano un valore assoluto, ma relativo. Victor Turner, l'antropologo inglese studioso del rituale e del potere simbolico, ha appurato che i Ndembu dello Zambia possiedono solo tre termini primari che designano il bianco, il rosso e il nero; tutti gli altri'colori sono indicati con termini derivati da questi tre, oppure ricorrendo a descrizioni o metafore. Cosi il nostro blu cade sotto il dominio del nero, il giallo appartiene invece alla categoria del rosso, e viene indicato con l'espressione: «come la cera d'api». Turner in La foresta dei simboli (Morcelliana) spiega questa particolare classificazione cromatica con il potere del sistema simbolico, il quale stabilisce classificazioni che hanno la loro ragion d'essere nei principi sociali della popolazione, nella rappresentazione dei loro rapporti interni. La cultura umana domina nnctar.tr.a r.atiirpci-cr.a costantoa naturaersoa fine degli anni sessanta un giovane antropologo americano decise di sfidare un'opinione allora dominante, nota come «teoria culturale delle emozioni»: le emozioni sono elementi acquisiti, trasmessi culturalmente, come le lingue; un tabù che è presente anche nell'ambito percettivo: i colori sono il risultato delle diverse culture, un prodotto linguistico. Ekman si recò in una piccola isola della Nuova Guinea, Fore, per assicurarsi che i soggetti del suo esperimento non avessero mai visto fotografie o film, e dunque non potessero conoscere i modi di esprimere le emozioni degli occidentali. Egli racconta agli indigeni delle storie e poi chiede loro di scegliere tra alcune fotografie di uomini americani, che esprimono diverse emozioni, quella che meglio si adattava alla storia narrata: un maiale selvatico entra in una capanna e provoca una reazione di paura. Il Fore indica correttamente le emozioni collegati alle storie. Come controprova Ekman chiede loro di assumere espressioni facciali corrispondenti; i giudizi collimano perfettamente. Tornato in patria, Dresenta alla Società Antropoogica i risultati ed è accolto da risa di scherno. Solo dopo diversi anni la teoria biologica delle emozioni avrà la meglio su quella culturale: le emozioni sono innate e universali. La medesima cosa vale per la visione? Marazzi suggerisce di trovare un punto di mediazione tra l'aspetto biologico e quello culturale, tra la visione sensoriale e i modelli visivi operanti nelle singole culture. Mentre l'etnolinguistica - la disciplina che studia le diversità culturali in rapporto al linguaggio - cerca di individuare «universali» validi per tutte le culture, associazioni metaforiche e opposizioni binarie (alto-basso; davanti-dietro; sopra-sotto; ecc.) fondate su determiante caratteristiche del reale, l'antropologia tende a sottolineare il processo di naturalizzazione della cultura e di culturalizzazione della natura. E l'arte? L'antropologia contemporanea sottolinea il fatto che la cultura è come un «documento» continuamente «agito» (Clifford Geertz, .ArUropologia interpretativa, il Mulino), un «testo» continuamente commentato dai membri di quella società. In occidente l'artista - si pensi a Picasso - è colui che crea sempre nuove azioni, il cui contenuto è spiazzante se confrontato a quello degli altri membri della società; la sua ossessione nel cercare di cogliere il senso del mondo che abita, lo porta a creare visioni inedite e inusuali. Dediti come siamo al culto del cambiamento, non possiamo farne a meno. La posizione eretta ci dà lo sguardo frontale e divide così la visione in due campi: ciò che sta davanti e ciò che sta dietro Una stessa immagine cosa provoca in un'artista come Giacometti e in un indigeno papua? Tutti possono osservare lo stesso soggetto ma vederlo in modo diverso Secondo lo storico dell'arte Gombrich «il pittore non dipinge quello che vede ma vede quello che dipinge»

Luoghi citati: Fore, Giappone, Italia, Nuova Guinea, Zambia